È un periodo di cambiamenti, per me.
Questa rubrica è strettamente legata al blog omonimo, su Splinder (elisarusso.splinder.com).
Ora mi è arrivata una comunicazione da parte del Signor Splinder che mi dice che il blog verrà dismesso entro il 31 gennaio 2012. Ecco io non so bene cosa significhi “dismesso” ed infatti il correttore automatico di Word me lo corregge con “dimesso”. Credo faccia un po’ parte della politica dei tagli. Il blog l’avevo aperto nel 2008 e un po’ mi spiace l’idea di perderne i contenuti. Al tempo stesso, in alcuni scritti di tre anni fa non mi riconosco per nulla. Sono acerbi! Altra variabile, qua un po’ arrogante: non so quanto abbia senso “regalare” certi contenuti, quando dovrebbe essere il mio lavoro (scrivere e venire pagata per). Mi sa che mi sposterò su elisarusso.wordpress.com ma non so ancora con quale bagaglio. Il web, tema ricorrente, è per me croce e delizia. La settimana scorsa vi è stato un lutto gravissimo, mi sto riferendo a Francesco, morto montando il palco di Jovanotti. Questa notizia mi ha scosso molto, per diversi motivi tra cui il fatto che a Trieste più o meno tutti i ragazzi dei soliti giri musicali hanno montato un palco, almeno una volta. Quindi ne conosco molti, quasi tutti. Conosco e stimo Paolo di On Stage. Questo senso di vicinanza ti fa sentire ancora più intensamente un fatto che ti avrebbe messo sottosopra ovunque fosse accaduto. Ma a due passi da casa, con persone coinvolte che conosci rende tutto più forte. Ma non è di questo che voglio parlare. Al contrario, voglio invitare a prendersi un istante di silenzio, di riflessione, di raccoglimento. Molti l’hanno fatto in buona e buonissima fede, ma la morte non è un tema che si possa trattare a suon di emoticon, faccine tristi, link su Facebook. Come diavolo viene in mente di lasciare un commento sulla bacheca Facebook di una persona appena morta? “Ciao, fa buon viaggio”. “Non ci vedevamo da 5 anni, ma ti mando un saluto”. Lo so, siamo tutti confusi, spaventati, inadeguati davanti a certi temi. Ma è il caso di andarci proprio in punta di piedi, passi felpati, altrimenti si rischia di muoversi come dei Godzilla sulla cristalleria. Sulla bacheca di Azalea: “Mi spiace molto per il ragazzo che ha perso la vita. Sapete quando ci saranno rimborsati i biglietti per il concerto?”. Capisci, questo non è umano. Le tecnologie dovrebbero renderci evoluti, più agili, più veloci, più umani. Voler dire, voler esserci, lasciare un commento, essere visibili, comparse di una tragedia. Figuranti. 5 euro l’ora no 7 no 10. Il dolore è un fatto privato, da vivere con pudore. Chi è credente preghi, chi non lo è mediti su ciò che è importante. Rispettare la vita e la morte. Questo non è un fottuto reality show.
Riprendo, su questo argomento, una riflessione della scrittrice Zadie Smith:
«Ho notato – e me ne sono vergognata notandolo – che quando un’adolescente viene uccisa, almeno in Gran Bretagna, la sua bacheca su Facebook spesso si riempie di messaggi di persone che sembrano non avere colto pienamente la gravità del fatto. Frasi come: “Amica mi manki!!! Spero ke 6 lassù con gli angeli. Ti ricordi qnt risate? Lov! XXX”.
Quando leggo cose del genere mi lancio in una piccola discussione con me stessa: “è solo un problema di istruzione. Provano esattamente quello che proverebbe chiunque altro, solo che non hanno gli strumenti linguistici per esprimerlo”. Ma un’altra parte di me formula un pensiero molto più cattivo e terrificante. E se invece, vedendo che la bacheca della ragazza è ancora lì, pensassero che in un certo senso è viva? Infondo cos’è cambiato, se il contatto tra loro era virtuale?».
Zadie Smith parla di una generazione diversa.
Io noto però che ci sono anche trentenni e quarantenni che usano i social network come fossero territori in cui vale tutto, in cui ci si può muovere diversamente, fare cose che nella vita reale non ci si sognerebbe mai.
Questo Mondo Nuovo mi fa paura, sotto diversi punti di vista.
Ne parlavo con Gian Maria Accusani dei Sick Tamburo, durante un’intervista. In poco tempo è stato testimone di grandi cambiamenti: si è trovato a suonare negli stessi posti negli anni dei Prozac + e in questi anni con i Sick Tamburo. Ebbene, il mondo è cambiato. La musica ormai è un sottofondo. I dischi non si vendono, ma non è che i concerti vadano così bene: l’affluenza e l’attenzione sono diminuite. Per tutti.
Mi sembra che anche la distanza artista-pubblico sia stata demolita.
Ci pensavo l’altro giorno, osservando i fan di Dargen D’Amico.
A fine concerto si mettono tutti in fila e aspettano il loro turno. Ciascuno deve avere una foto abbracciato, avvinghiato, con la lingua fuori, con le kornalcielo… insomma qualcosa che presupponga intimità e vicinanza. Qualcosa da mettere su Facebook, in modo che gli amici e i contatti sappiano che si è avuto questo momento di fama, accanto ad uno famoso. Ma dietro quella foto non c’è scambio, amicizia, comunanza, curiosità. Il fan non pone domande, fa a stento i complimenti… l’importante è portare a casa uno scatto.
Ad un certo punto si avvicina a Dargen una ragazza per un’intervista. La cosa che mi colpisce è che non ha un registratore, ma un foglio di carta sul quale annoterà forse quattro parole in venti minuti. Mi affascina questo nuovo modo di lavorare, dato che da una vita sbobino anche i sospiri di chi intervisto. Vorrei imparare questo nuovo metodo mnemonico. Ad un certo punto la giovane dice che “Odia Vasco”. E qui D’Amico ci regala svariate perle. Anzitutto dice che chi ha una carriera e un percorso come Vasco va sempre e comunque rispettato. Che dopo che ha fatto i dischi che ha fatto, ora può anche mettersi a stendere le mutande sporche, ma va comunque rispettato. La giovane ribatte che uno che è genio deve essere genio sempre. Dargen le spiega che la genialità nella vita ce l’hai per tre minuti, mica puoi essere genio sempre. È come la felicità: non puoi essere felice per dieci minuti di fila. È troppo, non reggi! Sei felice per qualche secondo, non di più.
Dargen mi piace un sacco. È ironico e saggio, ma soprattutto è rispettoso.
Questa cosa si sta un po’ perdendo.
Rispetto.
È una bella parola.
Mettiamola in cima ai nostri vocabolari.
La spinta ad esserci, a parlare, a dire la nostra, a sputare sentenze è forte, lo capisco.
Contiamo fino a dieci.
Magari nell’attesa chi è credente può pregare, chi non lo è può meditare.
“La parola è una chiave ma il silenzio è un grimaldello” diceva Gesualdo Bufalino.