La prima immagine che ho di lui è la seguente: sono nella mia cameretta (età: asilo o forse anche prima) arrampicata sul letto per raggiungere una mensola in cui è riposta una scatola con i Lego.
Un nanetto pestifero mi tira la maglia da dietro, per farmi perdere l’equilibrio. Ha gli occhiali con una montatura blu, i capelli a caschetto con la frangia. Forse è una delle prime volte che viene a giocare a Subbuteo (per ooooore) con mio fratello Ricky.
Lui è Gianmarco Pozzecco.
Noi Russos abitiamo al settimo piano, lui all’ottavo.
Con mio fratello, instaura un rapporto di amicizia stretto, viscerale, pur essendo molto diversi: in qualche modo si completano. Migliori amici d’infanzia, che poi percorrono assieme un buon tratto di vita, a superare l’adolescenza (sempre che si possa mai considerare superata tale fase) fino a separarsi per percorrere le proprie strade differenti, Poz star della pallacanestro, mentre Ricky si vota alle tortuose vie del rock’n’roll.
Gianmarco è sempre stato un ragazzo molto intelligente (nonostante qualche sforzo per nasconderlo e sfuggire dagli obblighi che l’intelligenza ti impone), ha sempre cercato di combattere una timidezza notevole con una estrema spavalderia, spingendo al massimo lo scherzo, la battuta pungente, il sarcasmo al limite dell’offensivo. Molte ragazzine ci restavano. In tutti i sensi.
Io da piccola ho avuto un rapporto privilegiato, perché ho sempre goduto del rispetto dovuto al fatto che fosse il miglior amico di mio fratello. Questo mi risparmiò un bel po’ di angherie. Ma c’è da dire che io ho sempre goduto del rispetto dei maschi, perché avevo quest’aria severa e implacabile probabilmente fin dalla culla. I maschi con me non hanno mai fatto gli stupidi. Se c’era una da prendere di peso e buttare a mare ai topolini di Barcola, quella non ero io. Se c’era da fare una battuta spinta su qualcuna, quella non ero io. Mi hanno sempre trattata da maschio, devo dire.
Mi ricordo un episodio in cui Ricky non c’era, e Gianmarco prese le mie difese dicendo che era mio fratello per proprietà transitiva, o qualcosa del genere.
Mi ricordo un altro momento in cui io e il Poz ci trovammo a guardare la chiesa geometrica dalla finestra della mia cameretta e intavolammo un discorso sui massimi sistemi e sul senso della vita sbalorditivo per ragazzini tra i 12 e i 16 anni. In quel momento, gli ho visto l’anima. In tutta la sua grandezza. Per qualche anno, insomma, è stato come avere più di un fratello. Mi sono sentita molto protetta. E rispettata. Cosa rara per una ragazzina.
Di sport ne ho visto tantissimo da bambina, mio padre era stato un calciatore agguerrito (raccontava sempre di aver fatto il militare nella compagnia atleti e di essere stato ad un passo dall’entrare in qualche squadra di semi professionisti) e si andava sempre a vedere le partite. Poi cominciò a giocare a calcio anche mio fratello e anche lì, si andava sempre a vedere le partite, e a volte anche gli allenamenti. Per un certo periodo con la squadra di calcio del Chiarbola, assieme a Ricky, giocava anche il Poz che ancora non aveva scelto il basket. Poi mi ricordo anche molti allenamenti seguiti nel campetto di basket del Chiarbola, o in quello dell’oratorio. Io purtroppo non ero sportiva, così mi trovavo sempre sul muretto e sulle gradinate a guardare.
E così è stato sempre: credo di essere venuta al mondo per fare la spettatrice. Gli altri hanno delle vite, io guardo le vite degli altri. O così mi sembra.
Inevitabilmente tra quelli che guardavano senza praticare si radunavano i bulletti, quelli che fumavano e impennavano col motorino come unico sport.
Poco male, perché i bulletti erano sempre dei fighi, o dei loser totali che non potevano far altro che attrarre la mia curiosità. Con queste bande di impenitenti qualche volte si andava in spedizione sigarette, alcol o altro. Qualsiasi tipo di sostanza, dalle sigarette, alle canne, all’alcol mi hanno sempre respinta. Non sono stata io a scegliere. Erano proprio le sostanze che non mi volevano. Più tardi nella vita mi sarei ritrovata in case in cui nelle credenze della cucina era più facile trovare l’eroina che un pacco di spaghetti, ma niente di niente: il mio karma almeno in questo è stato clemente. O magari mi ha reso tutto più difficile, perché non ero sportiva, non ero sbandatella e insomma qual era la mai strada?
Dei successi di Gianmarco sono sempre stata molto orgogliosa. Come si fa con i fratelli. Da lontano, perché negli anni non abbiamo avuto molti contatti, se non un saluto veloce quando ripassava da Trieste. Quando vinse lo scudetto a Varese fu una gioia. Ho seguito la sua carriera a distanza, a volte ho letto o sentito delle interviste in cui capivo chiaramente che la buttava in ridere, tanto per far el mona. E va bene, perché comunque è un tipo che risulta brillante, simpatico, fa ridere. Però mi è sempre dispiaciuto che non uscisse anche l’altro lato. Quella parte bella e profonda che avevo visto quando avevo 12-13 anni e parlavamo al buio guardando giù dalla finestra quell’orripilante chiesa geometrica, mentre rombava lo scarico di qualche motorino truccato (proabilmente Dady e Ciuby, bulletti doc scafatissimi con le due ruote) e non avevamo nient’altro che i nostri sogni a cui aggrapparci.
Di anni ne sono passati, di cose ne sono successe e non sto qui a farvi il riassunto ma finalmente, a giugno 2012 ho visto un’intervista in cui Poz è se stesso al 100%, senza vergogna di quella parte profonda e vera. Un’intervista ad anima spianata. È andata in onda su la 7, un documentario davvero ben realizzato. Casualmente Ricky si trovava di passaggio nella nostra casa di infanzia (lui non ci vive più, io sì) ed è stato coinvolto per delle riprese utilizzate proprio in apertura del documentario. Ricky e Poz, come ai vecchi tempi. Da Via Capodistra al “ricre”, come lo chiamavamo allora. L’ho visto con molta commozione.
http://www.la7.tv/richplayer/index.html?assetid=50272376
Poz durante l’intervista dice che uno sportivo in carriera non si rende conto di quello che sta vivendo, gli sembra tutto normale, routine. Ci si rende conto dopo, di quello che si ha vissuto. Ma questo vale per tutti.
L’altro giorno abbiamo registrato a Radio Capodistria l’ultima In Orbita Sessions. Ultima del 2012. Ma potrebbe essere l’ultima in generale. La giornata nello studio Hendrix con Eva Poles e la sua band è stata grandiosa. Bella energia, emozioni, musica, simpatia. Forse sono gli unici momenti in cui mi sento davvero bene, come il Poz vicino ad un canestro. Perché ognuno di noi ha la sua medicina per il male che è la vita. Lo sport, la musica, l’arte, la scrittura, la radio… Io, Ricky, Poz, Eva: non c’è differenza. Grandi passioni che ci hanno assorbiti, posseduti. Con gli alti altissimi quando siamo dentro al nostro mondo e bassi bassissimi quando non possiamo starci dentro.
E per quanto sia stata bella la giornata con Eva, il giorno dopo ho realizzato che era l’ultima. E allora ho ripercorso, mentalmente molti momenti vissuti lì dentro. Tra studio radio e studio tv. Nomi e storie mi tornano alla mente e il cuore si riempie di gioia. Jennifer Gentle, The Niro, Beatrice Antolini, Paolo Benvegnù, Sick Tamburo, Mojomatics, Miss Xox, TARM, BR Stylers, Edda, Matteino, Toni Bruna, Gionata Mirai… Molta musica, molte buone vibrazioni. Ma mentre le vivi, non te ne rendi conto. Le dai per scontate, sono il tuo percorso.
Ed è giusto che sia così.
Poi ci ripensi, con soddisfazione.
Tanto più se la realizzazione è stata fitzcarraldiana.
E come dice il Poz, ti accorgi del valore di quello che hai fatto in base alla reazione delle persone quando te ne vai.
Alle volte metti a fuoco il tuo ruolo (e lo mettono a fuoco gli altri) solo quando te ne vai.
Ed io ora me ne vado,
senza girarmi a guardare indietro
e non so se queste lacrime sono solo di commozione.
Anche questo è un dettaglio che metterò a fuoco poi.