L’Italia sta messa come sta messa ed è importante fare sentire il proprio dissenso e bla bla bla. Solo che si sta cadendo nel solito errore Made in Italy.

La dispersione.
Perché noi italiani dobbiamo avere mille mila partiti politici, e quindi anche mille mila movimenti che scendono in Piazza. Scendere in Piazza ogni giorno, un po’ per tutto, per difendere i diritti delle foche o protestare contro il digitale terrestre che a casa tua si vede a nebbia, ottiene esattamente l’effetto di neutralizzare qualsiasi protesta, anche quelle davvero importanti. Ogni giorno vedo foto di gente che manifesta in piazza: ho appena visto delle triestine in trasferta a Milano contro la vivisezione (brave, causa nobile eh, ci mancherebbe), un manifestazione contro la chiusura impropria della Casa 139 (altra causa nobile eh), poi però c’era la giornata della lentezza e la giornata dello sciopero degli immigrati, per non parlare dell’8 marzo con tutte le sue belle mimose gialle, poi c’erano le donne di destra (in risposta a quelle ufficialmente apolitiche ma in realtà di sinistra di qualche settimana fa). Insomma talmente un bordello che uno rischia di trovarsi a sfilare in piazza per i diritti sbagliati. Sei già lì con lo striscione e ti accorgi che è un sit in pro bistecca, e tu sei vegetariano. Te magari ti metti una sciarpa beige in buona fede, finisci nel corteo sbagliato e ti randellano, e tu non sai neanche per cosa stava il beige nel linguaggio di piazzopoli (a parte che per colore discutibile).
Di recente ho visto una manifestazione in cui c’erano più forze dell’ordine che manifestanti, ed il capo dei facinorosi – giuro – era un bimbo di 10 anni alto un metro e un mandarino, che con voce da Topo Gigio bofonchiava nel megafono slogan incomprensibili, tipo “Tutti a casa”.
Tutti a casa, sì.
Te per primo.
A guardare i cartoni animati.
Altro che batter le padelle, io prenderei il mestolo e assesterei due colpi ai genitori che portano i bimbi in piazza. Ma lasciali giocare e sognare! Poi diventeranno maggiorenni, si costruiranno la loro coscienza politica (e non la tua) e decideranno chi votare, se scendere in piazza o meno, se adorare Dio, Belzebù o Visnù. Bimbi in piazza = violenza psicologica.

Guardiamola da un’altra prospettiva: non sarà che in tempi di crisi, scendere in piazza a far comunella sia un modo per socializzare e farsi un giro senza spender i soldi che non si hanno in shopping e caffè? Poi con tutte ste parate di donne, gli uomini ci marciano (costa meno che andar per locali notturni ed è anche più efficace. Vuoi mettere il fascino dell’uomo impegnato che ha a cuore i diritti delle donne o dei panda?).

Per non svaccare ed essere incisivi, si dovrebbe fare al massimo una manifestazione all’anno. Ma con i contro-C. Tutti compatti. E strutturati. E motivati. Mettere a ferro e fuoco le città (in senso figurato e non). Farsi sentire davvero.
Le sciarpe viola, le sciarpe rosa, le sciarpe bianche, le sciarpe verdi. L’arcobaleno di sciarpe. Manco fosse una sfilata di moda…
Simboli e slogan abbruttiscono il genere umano. La massa e i suoi linguaggi istupidisce e appiattisce. Perché quando si è in tanti, deleghi. E ti deresponsabilizzi. Non ti prendi neanche la briga di sceglierti il colore di sciarpa che ti piace. Ti metti quella che hanno deciso loro! E urli slogan inventati da altri. E magari c’è chi si sente spronato a lanciare un sasso su una vetrina, perché mimetizzato dalla folla. Un po’ l’effetto ultras: soli conigli, in gruppo guerriglieri cazzoni.

Il movimento che in assoluto più mi urta è quello delle donne, il Movimento Rosa. Perché è vago e confuso. Se non ora quando? Bhè almeno 50 anni fa. Quando in effetti i movimenti delle donne avevano un senso e c’erano cose concrete da ottenere. E bruciare i reggiseni poteva avere il suo perché.
Ma siamo nel 2011, in Occidente. 
Non indossiamo burka e non ci bruciano la faccia con l’acido, mediamente.
Non mi è neanche lontanamente possibile concepire l’idea che in questo contesto ci sia chi ragiona per genere: esistono le persone, gli esseri umani. Punto. No: maschi col grembiulino celeste e femmine col grembiulino rosa.
Peggio: non mi è neanche concepibile che una donna nel 2011 debba scendere in piazza per ribadire che lei la dà via in comodato gratuito e non per soldi. Ma scherziamo?
Dover sottolineare concetti base, questo sì che ammazza la dignità degli esseri umani. 

E poi mi arriva Carmen Consoli, una che ho adorato nella mia vita precedente. Premetto che la trovo anche simpatica e ha fatto veramente delle belle cose in passato. Ma poi la sua vena creativa si è esaurita. Succede. Ora arriva e ci propone un video di denuncia. Titoli di Repubblica: il brano della Consoli contro Berlusconi. Oddio, paura. Vediamo. Per denunciare le donne che mostrano le zizze cosa fa? Mostra le zizze. Geniale! E tutti a dire: ma è ironico. Sarà anche ironico, ma è inefficace. Io vedo solo zizze, e una canzone bruttina. La vena ironica è pericolosa. Immagina Mark Lanegan che si mette a raccontare una barzelletta prima di una canzone. Anche no. Preferirei che la barzelletta me la raccontasse Andrea Sambucco e Mark Lanegan mi facesse venire i brividi con una sua interpretazione. Seria.
Poi arriva pure Oliviero Toscani, con un’intervista in cui dice: “donne mi fate tutte schifo”. Pure lui si è bruciato un po’ il cervello. Però, in uno sprazzo di lucidità dice: «Siamo un Paese dominato dagli uomini, ma le donne ci sguazzano. Siamo un Paese sottosviluppato. Ha mai visto una madre che non sia fiera del figlio “sciupafemmine”? Chi li alleva, così? È un pianto… E poi avete il coraggio di lamentarvi»?
Nel suo delirio, Toscani pone l’accento su una questione fondamentale e sottovalutata dai cosidetti movimenti di protesta. La responsabilità delle donne.
Lasciamo stare i casi limite nati in contesti di povertà, violenza, ignoranza. Non mi ci metto neanche (ma è bene sottolinearlo).
Le famigerate escort, veline, vallette della recente cronaca italiana, vi sembrano vittime? Non consenzienti? Non calcolatrici? 
Hanno fatto delle scelte. E le hanno fatte anche perché esteticamente potevano permetterselo. Quindi (e ora sparo la bomba politicamente scorretta): una donna carina, bellina, decente, bruttina (io sono in una di queste categorie, poco importa quale) non è neppure molto credibile quando spara giudizi. Se tu fossi stata davvero figa, chissà cosa avresti fatto. Magari non avresti studiato, coltivato le tue doti intellettive e avresti affinato altre armi, come quella della seduzione. Come quella di darla via per soldi. Che ne sai? Magari i tuoi ti avrebbero allevata come una bellona, ti avrebbero portata ai concorsi di bellezza anziché alla biblioteca comunale e ti saresti mossa nel mondo in maniera diversa. Non lo puoi dire. Quando inquadrano queste donne in piazza con le facce dipinte di rosso bianco e verde, ne hai mai scorta una che sembrasse una modella da copertina? Certo che no. La donna manifestante è spesso dimessa. Bruttina. O ai limiti del. Why? 
Ogni donna ha le sue armi. Può decidere di usare o non usare quelle che ha. Ma non può farlo con le armi che la natura non le ha dato in dotazione.

Ma torniamo alla musica. Guardo all’estero e vedo le varie PJ Harvey, Anna Calvi, Joanna Newsom, Feist, Florence Welch, M.I.A, Janelle Monae, Erykah Badu, Cat Power, Joan as Police Woman, Bjork, Tori Amos, Amy Winehouse, Adele…dico proprio i primi nomi che mi vengono… E noi? (Non prendo in considerazione quelle che stimo molto ma che restano comunque nell’underground… da Beatrice Antolini a Marcella Riccardi, da Eva ed Elisabetta dei Prozac+ a Michela Grena…) Sulle porte del mainstream chi abbiamo? Carmen Consoli e Cristina Donà? Vogliamo fare un paragone tra l’impatto politico di “Born Free” di M.I.A e il pezzo della Consoli? Giocano proprio campionati diversi. La mia opinione è che in Italia la donna continua ad auto-ghettizzarsi. A rivendicare diritti non in quanto essere umano come gli altri, ma in quanto esserino rosa. E questo ci penalizza, nella vita, nelle relazioni, nel lavoro, nell’arte. Le donne vere sono talmente belle da essere al di sopra dei generi. Stiamo sveglie, vi prego. Non indigniamoci tanto per. Non ho nessuna intenzione di scendere in Piazza a sventolare una cazzo di sciarpa rosa per fare sapere al mondo cosa sono e cosa non sono. Io lo so bene, cosa diavolo sono. Sono una persona. E non ho bisogno di sbandierare e rivendicare nulla. Per lasciare un barlume di speranza, ecco una riflessione di Paolo Benvegnù sulle donne:

“Quindi la donna è un essere superiore perché capace di amare incondizionatamente?
Perché crea, anche con indifferenza. Anche non sentendone il sapore. Non ce ne sono tanti casi così. La donna è la portatrice della vita, è esclusiva e non si può fermare. É questa la differenza fra uomo e donna ed è per questo che ne abbiamo paura e la vediamo come un mistero. Dentro la donna c’è il mistero della vita e di questo universo, che noi non abbiamo. Che possiamo solo immaginare, e al quale non arriveremo mai, per fortuna”.

Altra fonte di riflessione, per chi ha tempo:

Ricevo da più fonti, a sciame, attraverso gli effimeri e non sempre aggreganti canali di Internet un Invito alle donne italiane a partecipare ad una giornata nazionale di mobilitazione domenica 13 febbraio 2011. Si intitola «Se non ora, quando?» e porta firme eccellenti e curiosamente trasversali, da Rosellina Archinto a Giulia Bongiorno, da suor Eugenia Bonetti a Margherita Buy, da Livia Turco a Emma Fattorini, da Inge Feltrinelli a Natalia Aspesi, da Susanna Camusso a Claudia Mori, da Gae Aulenti a Valeria Parrella. Poiché ogni segno di vitalità civica merita attenzione, l’ho letto con cura e disponibilità a «mobilitarmi». E così, a modo mio, mi mobilito, chiosando e segnalando quel che di questo «appello all’indignazione attiva» mi sgomenta, mi disturba, mi offende. Rivolgo dunque alle firmatarie e alle donne che hanno sottoscritto il loro appello un paio di domande il cui fine non è sabotare la loro iniziativa, ma renderla più trasparente, meno ecumenica e universalistica, più situata. Quando qualcuno ci chiede di riconoscerci in una proposta, in una parola d’ordine, in uno slogan, anche solo in una giornata di tardo inverno all’insegna dello sdegno, il minimo che possiamo fare è chiederci chi si indigna per cosa, contro chi, e perché proprio ora. E, soprattutto, se può parlare anche a nome nostro e transitoriamente rappresentarci, saturando lo spazio mediatico e l’arena politica.

Partiamo dunque dalle destinatarie dell’appello, genericamente identificate come «Italiane», vale a dire donne e nostrane. È a loro che si chiede di esprimere indignazione, dando per scontato che esse la provino – tutte e alla stessa maniera – e non vedano l’ora di avere un contenitore, un palinsesto, in cui riversarla e pubblicamente manifestarla. Subito dopo quest’apostrofe a tutto campo – da cui però sono esclusi gli Italiani, presumibilmente immuni da tanto fango e dal nobile sentimento della collera, nonché le «non-italiane» -, le autrici dell’appello tracciano brevemente il profilo (davvero specifico) della donna italiana cui si rivolgono. Questa donna è, a loro dire, «maggioranza»: «lavora fuori o dentro casa» (sì, avete letto bene, fuori o dentro, non fuori e dentro casa), «crea ricchezza, cerca un lavoro, (e una su due non ci riesce), studia, si sacrifica per affermarsi nella professione che si è scelta, si prende cura delle relazioni affettive e familiari, occupandosi di figli, mariti, genitori anziani».
La donna invitata a indignarsi, contrapposta alla donna che tale indignazione con i suoi comportamenti dovrebbe suscitare, è dunque il vecchio angelo del focolare lievemente rammodernato. Acrobata del quotidiano e dei sentimenti, tutta lavoro, casa e cura, produzione e riproduzione, madre di famiglia/moglie/figlia di genitori da badare, è «sacrificalmente» presente sulla scena pubblica come tesserata di un qualsivoglia partito, sindacalista, imprenditrice, volontaria. Il tutto per rendere «più civile, più ricca e accogliente la società in cui vive». Società – forse alle firmatarie è sfuggito – già assai più ricca e variegata di quanto loro sembrino pensare, visto che la forma famiglia eterosessuale, nucleare e non patogena è in via di estinzione come il panda gigante e la foca monaca. E poi, via, dopo tanti decenni di riflessione politica femminista sulla funzione-cuscinetto del maternage femminile sulle crisi di sistema del capitalismo, come non ammettere che nel frattempo le donne possano avere sviluppato altre strategie, altri sogni, altre pratiche, semplicemente altri desideri e magari qualche astuzia in più? Le autrici dell’appello sostengono che le donne/vestali di cui sopra «hanno considerazione e rispetto di sé, della libertà e della dignità femminile ottenute con il contributo di tante generazioni di donne che – va ricordato nel 150esimo dell’Unità d’Italia – hanno costruito la nazione democratica». Oltre alla famiglia, entra pertanto surrettiziamente in campo la figura della nazione/patria: centocinquanta anni di edificazione storica sulle cui alterne e non sempre democratiche vicende le scriventi sorvolano, glissando così anche sul ruolo non sempre specchiato e talora schiettamente complice e servile delle stesse donne.
A questo punto l’appello ci riserva un colpo di scena retorico: «Questa ricca e varia esperienza di vita è cancellata dalla ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale offerta da giornali, televisioni, pubblicità. E ciò non è più tollerabile». Ora, quando qualcuno dice che qualcosa non è più tollerabile, vien da pensare che quella stessa cosa finora lo fosse. Cos’è dunque che ha fatto traboccare il vaso? La politica estera del nostro Paese? Un’economia agonizzante? Lo sfascio della scuola e l’incipiente catastrofe di alcuni servizi di prima necessità? L’atteggiamento ostentatamente familistico, clientelare, omertoso con cui si è data posticcia soluzione a questioni d’interesse pubblico (grandi opere, smaltimento dei rifiuti, ricostruzione post-terremoto dell’Aquila, sultanato della Protezione civile)? Oppure il venire allo scoperto (mediatico) delle abitudini sessuali di alcuni ricchi e potenti di casa nostra? Se così fosse, le giovani donne (ma nel mucchio non ci mettiamo anche l’ineffabile Angelino Alfano?) che si fanno abbagliare da «mete scintillanti e facili guadagni offrendo bellezza e intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a scambiarle con risorse e ruoli pubblici» sarebbero da rivalutare. Grazie alla loro scelta professionale, alla loro capacità di sfruttare le proprie non necessariamente effimere doti naturali, avrebbero permesso alle «Italiane» di vedere in che giungla siamo finiti. Invece no, le firmatarie affermano che «questa mentalità e i comportamenti che ne derivano stanno inquinando la convivenza sociale e l’immagine in cui dovrebbe rispecchiarsi la coscienza civile, etica e religiosa della nazione».
Ah questa poi! Religiosa? In che senso? Che fede e che dio hanno in mente le autrici dell’invito allo sdegno e alla mobilitazione? «Senza quasi rendercene conto», incalzano con toni sempre più savonaroliani, «abbiamo superato la soglia della decenza». Già, perché il sottotesto del loro impaziente invito è che «il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato, incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni». Insomma, la lettura della palude nazionale propostaci da questo appello è, come capita spesso, deresponsabilizzante e rassicurante: se ci comportiamo male è perché chi dovrebbe farci da guida ci dà il cattivo esempio. Un po’ come quando gli analisti statunitensi attribuiscono la responsabilità delle stragi di adolescenti nelle scuole ai modelli di violenza forniti dal cinema hollywoodiano più che alla diffusione (della cultura) delle armi.
Per concludere, care firmatarie, voi invitate chi «vuole continuare a tacere, sostenere, giustificare, ridurre a vicende private il presente stato di cose» a farlo «assumendosene la pesante responsabilità, anche di fronte alla comunità internazionale». Io vi invito a cadere meno di naso nel goloso peep show politico allestito dal governo e a proporre agli uomini che conoscete e che frequentate non di «dimostrare amicizia verso le donne», ma un barlume di capacità di autoanalisi e di autocritica. Quel che mi intristisce, mi inquieta e mi spaventa è che dietro il vostro invito a «risvegliarci» si nasconda una velata, forse inconscia, forma di razzismo intrisa di sessismo e di classismo: donne sacrificali (quelle che vanno a letto presto e si alzano presto) verso ragazze a ore (quelle che vanno a letto col capo), moralità verso apatia dei sentimenti, anime verso corpi. Noi, donne e uomini, siamo fatti di tutto questo. La contraddizione – o la complessità – è dentro di noi. Guai a chi ci divide, mettendoci gli uni contro gli altri e invitandoci alle crociate. Per chi, come me e come tanti, ha sempre diffidato della cosiddetta normalità, includere l’altro da sé, il diverso, è non solo doveroso, ma prudente.
Maria Nadotti
07 febbraio 2011

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