Era da tempo che non leggevo un libro che mi entusiasmasse così. Non per niente è stato consigliato da Gianfranco Franchi, che non sbaglia mai un colpo.
Si tratta del libro definitivo sul precariato intellettuale giuovanile, direi.
Trattasi di: Flavio Santi “Aspetta Primavera, Lucky”, Edizioni Socrates.
“Tra Bianciardi, Fantozzi e Arturo Bandini. Fulvio Sant è l’evoluzione targata Terzo Millennio dell’intellettuale dalla vita agra del noto libro di Bianciardi. L’unica cosa che sa fare bene è scrivere e con la scrittura fa qualsiasi cosa (traduzioni, libri in proprio, saggi, articoli, corsi all’università ecc.), pur di campare, tra stenti economici, bollette pagate per un soffio, in un mondo senza più progetti, passioni, dove ogni valore è ridotto a pura merce di scambio. L’industria culturale per cui lavora è un mercato delle vacche, popolato da personaggi grotteschi e senza scrupoli. Anche a livello personale la sua vita è complicata: diviso tra due donne, la moglie e l’amante. Fulvio è spaesato, gli sembra di avere la testa sotto terra come uno struzzo e non gli resta che rifugiarsi in una personalissima droga di sua invenzione: l’aerosol con qualunque sostanza gli capiti a tiro. Una riflessione spiazzante sul Potere. Il ritratto crudo e lacerato della prima generazione di operai-intellettuali. Senza soldi, senza futuro e senza nulla da perdere e da rimpiangere. “Le persone felici sperperano, quelle tristi sprecano. Ah, che la vita possa essere un lungo sperpero! (Ma finora ho l’impressione che la mia è stata un lungo spreco)”.
Ecco l’incipit: “La notte è fatta per gli uomini che si svegliano di colpo nel cuore della notte. Così anch’io mi sveglio di colpo nell’oceano scuro e sterminato di questa notte. Un triangolo delle Bermuda formato camera da letto due metri per tre. Soffoco, annaspo, cerco un’ancora di salvezza nel buio fitto delle tenebre, esposto ai gelidi monsoni del mio disorientamento. Mi sento uno struzzo, la testa sotto terra”.
Oltre all’aerosol, rifugio e certezza è la visione dell’interminabile soap opera Beautiful:
«(…) la storia è sempre più folle e allucinante, piena di gente che salta letteralmente in aria nell’esplosione dell’auto ma si salva, scivola in fornaci incandescenti e non muore, ha rapporti multipli con un intero albero genealogico, dalla madre alla figlia alla figlia della figlia, si sposa, si molla e si risposa, in un arco di tempo che solo la poligamia e l’incesto potrebbero permettere. Beautiful è il crollo inconsapevole di tutti i tabù, davanti agli occhi e alle orecchie ignare di milioni di casalinghe si celebra la caduta degli dei e di tutti i valori borghesi, e loro, le casalinghe, non battono ciglio. Con la vita che fa Ridge dovrebbe avere per lo meno l’Aids o qualche altra malattia venerea, la gonorrea o la sifilide, così come il suo pari grado al femminile Brooke, perennemente in calore come una giumenta dell’Arizona».
«Intendiamoci, a me Luciano Bianciardi mi fa una pippa». A questa premessa fa seguito una lettera aperta all’autore della Vita Agra:
«(…) Caro Bianciardi, tu non puoi saperlo, ma noi siamo la prima generazione di intellettuali operai. Che buffo, una volta Flaiano ha scritto: “Non ci restano che gli artisti a voler sembrare operai”. Adesso lo siamo diventati per davvero, e non per posa snobistica. C’è stata una sottile evoluzione della specie umana: dal proletariato delle fabbriche siderurgiche e metalmeccaniche a quello dei plurilaureati. Oggi le classi meno agiate sono spesso quelle che hanno il più alto grado di istruzione. Senza soldi, senza futuro e senza nulla da perdere e da rimpiangere. Almeno voi stavate per avere il ’68, la tua ribellione contro l’industria culturale aveva un senso, speravate in grande, la rivoluzione, il cambio di guardia, grandi cose. Mi ascolti, Bianciardi, mi ascolti?».
Una volta chi studiava molto si costruiva una carriera e poi si arricchiva. La fatica messa negli studi in qualche modo ti veniva matematicamente restituita. Ed oggi?
«“Con tutto lo studio che fai se non diventi ricco tu…” mi ricordo che mi dicevano i parenti del Friuli, sani e pragmatici contadini per cui a un tanto di sforzo corrisponde un tanto di compenso, non si scappa. Un etto di farina di granoturco pesa un etto, mica un chilo. Un maiale da un quintale e mezzo è un maiale da un quintale e mezzo e produrrà di conseguenza tot salami, tot coppe, tot lardo, tot costolette, tot cotechini. Non si scappa. Invece un traduttore di 80 chilogrammi non è detto che produca un tot di euro all’anno o al mese.
(…)
Ecco, l’unica cosa che vorrei però è non vivere – come vivo – senza domani, con il naso sempre appiccicato alla vetrina opaca delle occasioni mordi e fuggi, di tre mesi in tre mesi, finito un lavoro, dentro un altro, oppure perennemente a caccia, ma che poi non è una caccia virile, anzi non è nemmeno una caccia vera e propria, perché tu non sei il cacciatore, sei piuttosto la vittima, è più propriamente una questua, il piattino non c’è, è tutto più tecnologico, ma non c’è differenza con l’elemosina, ora la fai via internet mandando email e impietosendo il tuo destinatario, la mano tesa è elettronica, ma non muta l’immutabile tangenza del tuo destino.
È come se avessi davanti a me un muro altissimo e insormontabile, e io grattassi con la sola forza delle mie unghie. Dalle cuticole lacerate esce sangue. Sangue. Il muro resta davanti a me, intatto e massiccio».
Ecco come descrive l’esperienza dell’insegnamento:
«(Fino all’omicidio della povera Marta Russo in pochissimi sapevano di preciso cos’era un dottorato e cos’erano dei dottorandi: la categoria ringrazia ancora sentitamente la coppia Scattone-Ferraro per aver spalancato i cancelli della fama e del gossip. I dottorandi praticamente sono persone che avendo molto tempo a disposizione, per studio dicono loro, si danno alle pratiche più diverse: chi spara dalla finestra del proprio studio, come i benemeriti Scattone e Ferraro, chi studia il linguaggio delle mondine, chi cerca testimonianze del sacro Graal nella letteratura finlandese ecc.).
Così mi toccò un insegnamento di scrittura.
Ricordo ancora la prima volta che entrai in aula. Davanti a me una ventina di ragazzi e ragazze brufolosi, pieni di piercing, annoiati e in piena tempesta ormonale. Come domarli?, mi chiesi, quasi che fossi entrato nell’arena di un circo e non in un’aula universitaria.
“Tanto questi non sanno scrivere e mai impareranno”, mi dissi trafitto da uno di quei rari momenti di illuminazione. “Tanto vale farli divertire”.
Così per il corso decisi di sfoggiare i diversi capitoli della mia innovativa e provocatoria tesi di dottorato dal titolo Storia paracula della letteratura. Questo è il titolo vero, originario, la mia luminosa traccia per i tre anni di studio che ci ho dedicato, poi in sede di discussione finale è diventato, per ovvie ragioni di opportunità, Cenni di una storia letteraria disarmonica e difforme, per poi tornare subito dopo Storia paracula della letteratura.
La tesi della tesi è questa: fin dalle origini la letteratura italiana pullula di paraculi, anzi gli unici ad andare avanti sono stati proprio loro. Con questa nuova chiave di lettura gli autori e le opere della tradizione acquistano una luce più articolata e critica, a mio avviso».
Sul potere:
«Quel mio amico poeta, morto troppo presto, mi diceva “Tu hai qualche problema con il potere”. (O forse è il potere ad avere qualche problema con me?) è vero: odio il potere. Lo odio perché è il vero anello di congiunzione tra l’uomo e la bestia. Il potere non è utile, non nobilita, non migliora, semplicemente credo che avvicini l’uomo al più basso livello di bestialità. Non esistono poteri buoni, cantava De Andrè. Sempre stato selvaggio. Sono venuto su come un cactus».
E sull’invidia:
«Mi chiedete se sono invidioso? Cazzo sì che sono invidioso. Invidiosissimo, grondo invidia da tutti i pori. Sono invidioso come una biscia. In una scala da 1 a 10 dove 1 è “infinitamente generoso”, 5 è “mediamente disinteressato” e 10 è “eccezionalmente invidioso”, la mia invidia va oltre, la colonnina esplode, lanciata in orbita verso i più oscuri spazi interstellari.
Eppure se chiedi in giro nessuno è invidioso. Sembrano tutti contenti dei successi altrui. Invidioso? Oh, no, per carità, sono tanto contento per lui. Ecco, io questa cosa non l’ho mai capita, perché tutti al momento della semplice dichiarazione sono disinteressati, anzi felici, ma poi all’atto pratico cercano di ostacolarti, di prendere il tuo posto, di ottenere quel lavoro, quell’incarico, di incontrare quella persona al tuo posto. Però no, non sono invidiosi. Ti pugnalano alle spalle. Ma non sono invidiosi. Ti segano le gambe. Ma non sono invidiosi. Di tutti e sette i peccati capitali l’invidia sembra quello estinto, inesistente, inconcepibile, dimenticato. Ma è tutto così strano, perché ovunque ti giri vedi gente che attenta alla tua vita, evita coscientemente di dirti che c’è quell’occasione, quell’opportunità, tace, si volta dall’altra parte, non parla, alza le spalle, dice di non sapere e invece sa, sa tutto, ma lo tiene per sé, per le proprie ambizioni personali e poi parla male di te, ti sfotte quando c’è la possibilità, e meno male che è tuo amico.
Vi dico io come stanno le cose: si tratta di un sentimento privatamente molto coltivato, ma socialmente esecrabile, anche se alla fine molto utile. Forse il più utile di tutti e sette i peccati capitali. Pensateci, senza l’invidia che ne sarebbe della nostra società? Di solito si contrappone all’invidia sentimento negativo l’ammirazione come suo polo positivo. Sbagliato. L’ammirazione è un sentimento statico, l’invidia è dinamico. Quando ammiro al massimo contemplo beato, quando invidio desidero prendere il posto dell’invidiato, dunque mi metto in moto, mi metto a fare, tessere, tramare, pensare, mi muovo, mi agito, penso, trovo».
Il tutto non può che concludersi dal medico:
“Vede, dottore, trovo la gente stupida e noiosa. È normale?”
Mi fissa per qualche secondo, poi mi fa cenno di continuare.
“Ecco, vado ad una festa e mi annoio. Siedo a una cena e mi annoio. Partecipo a un party e mi annoio. Riesco a prevedere tutto. I loro discorsi, le loro battute, anzi a volte li anticipo e me li faccio direttamente io in testa per non perdere tempo. Dottore, sia sincero, la prego, è normale?”