Piccolo momento di autocelebrazione sbrodolosa.Ma infondo Fabri Fibra ci insegna che dobbiamo anche applaudirci un po’ da soli.

Volevo segnalare, che è stato realizzato (e addirittura messo in onda) un bel servizio sui Russos in Orbita, merito di Piero Pieri. Uno specialino con un po’ di spezzoni dalle In Orbita Sessions andato in onda su Rai Terzarete Bis ed in contemporanea su Tv Capodistria (il programma si chiama Lynx). Soprattutto fa strano che tu guardi Report con la Gabanelli e trac alle 22.30 si interrompe il collegamento e dopo un po’ ti vedi i Russos. Un senso di straniamento feroce.

Il servizio è montato benissimo.

Il montaggio è tutto.

Oddio, non proprio tutto, perché se non hai un po’ di polpa diventa difficile.

Però è da anni che cerco di tagliare, cucire, incollare, montare in modo da valorizzare le interviste scritte, radio e tv che ho avuto per le mani. In sostanza puoi decidere come far uscire l’intervistato. Come un genio o come un ebete.

Essere intervistati è molto più difficile che intervistare, secondo me.

Più sai la cosa che ti chiedono, più si crea l’effetto scena muta all’interrogazione scolastica.

E a casa, quando ripetevi la lezione la sapevi bene.

D’altra parte in cameretta, in sala prove e in allenamento sono bravi tutti.

Domanda: “Chi è Edda Rampoldi?”.

Risposta: “Un cantante milanese”.

Silenzio e sguardo di panico in camera.

Sono le domande più semplici che ci mettono in crisi.

Comunque dài un bel servizio Rai, due pagine sul Mucchio, l’intervistona su Lankelot… sono quelle piccole spinte che ti convincono a non mollare, che non stiamo proprio qui a raccontarcela tra noi.

Perché noi altri del precariato rock, come scrive Michele Wad Caporosso nel suo “Italia Suxxx Tempi duri, cani sciolti e musi sporchi” (Agenzia X):
“In Italia arrivi a un punto in cui qualunque interesse tu abbia prima o poi devi abbandonarlo, e sembri pazzo se non lo fai. Alla soglia dei ventott’anni, quando vai a lavorare ti uniformi all’immagine più diffusa nella tua realtà circostante.
Ed è lì che una persona muore.
In questo la musica è fondamentale.
Ti sceglie e ti decide.
Traccia il percorso.
Non c’è migliore soluzione per sconfiggere il dilemma del prigioniero che ascoltarsi un fottutissimo buon disco”.
Ma già che ci sono, concludo la rubrica proprio con il libro di Wad, di cui già ci siamo occupati:

“Il nostro tempo libero è diventato un lavoro. Tradotto: il nostro lavoro è tempo libero. Siamo immateriali come le nostre ambizioni professionali. Quello che voglio dire è che oggi vivere del proprio sogno non è più una speranza ma l’ultima spiaggia.
Generazione di gente che preferisce seguire la via di deejay, musicisti, pierre o artisti/pittori anziché sedersi con la testa bassa dietro una scrivania a fare stage insignificanti e sottopagati.
Conosco: una che prova a vivere scattando foto ai party, uno che si improvvisa grafico indipendente, un altro che disegna paesaggi, chi è produttore di musica dance tutto il giorno chiuso in casa davanti al computer, chi pubblica una webzine musicale. Vivere facendo tatuaggi, viral marketing improvvisato, il calligrafo, lo street artist, la giornalista per una rivista che sta chiudendo, l’ufficio stampa pagato a pubblicazione, l’editor per una casa editrice do it yourself. Chi sta scrivendo un libro, chi lavora in una web tv, chi fa musica rock e organizza concerti, e ancora: avere una piccola agenzia di booking, collaborare free lance per magazine di moda, fare la busker o gli street show, spezzarsi la schiena per fare parkour o il vee-jay durante le feste, l’hostess con le liste all’ingresso dei locali, l’attrice porno amatoriale, correre tutto il giorno al parco perché è qui in Erasmus e se ne sbatte del resto, disegnare vestiti e autopromuoverli ai banchetti nei mercatini, vendere erba, fare il soundboy nelle dancehall o il volontariato per una Ong o il fonico palco. E via così: eroi di una working class vagabonda, pagata a gettone e destinata ad essere etichettata col marchio non-sense”.

 

 

 

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