Quando ero piccola, ingenuamente, pensavo che “scrittore” fosse una professione. Rispettata e retribuita. Nella mia mente di bambina, c’era la maestra, il vigile del fuoco, la ballerina, il calciatore, il domatore di leoni al circo, l’insegnante di pattinaggio, la casalinga, il muratore e lo scrittore. La maestra leggeva i miei temini, si sfracicava dalle risate e mi diceva: “tu da grande farai la scrittrice!”. E io mi misi il cuore in pace e mi disimpegnai sui vari fronti: matematica, ginnastica e ballo. Ma forse, feci l’errore di malinterpretare le risa della mia maestra, che se la rideva prefigurando non la mia brillante carriera ma il mio misero conto in banca. Poi sono diventata grande, e mi sono trovata nel futuro, nel pauroso 2011.
In questo momento, la scrittura sarebbe la mia attività principale (visto che ho fatto altri lavori e ho messo da parte due soldi, più che altro).
Ho pensato, però, che forse non guadagno abbastanza con la scrittura perché non produco abbastanza.
Allora ho fatto un esperimento.
Per una settimana ho eliminato qualsiasi fonte di distrazione (compreso Facebook, disattivando momentaneamente l’account), conversazioni Skype, riducendo all’osso anche le telefonate.
E ho scritto.
Scritto, scritto, scritto.
Ho prodotto, tra le altre cose, 9 articoli, per collaboratori diversi. Per la maggior parte interviste, che hanno comportato un lavoro del tipo: documentati, prepara le domande, registra un’ora e più di conversazione, riascolta, sbobina, sistema, scrivi il pezzo, taglia cuci, cambia, correggi. Ore di lavoro. Più di 8 ore al giorno, a volte. Facciamo un resoconto di fine settimana. Di questi 9 articoli ne sono stati pubblicati 2;
3 vanno buttati via poiché erano legati ad una data,
altri 4 usciranno ma nella settimana successiva.
Monetarizzando, in una settimana di lavoro pieno: mi rimangono 40 euro lordi, da cui andrebbero tolte le spese di telefono e internet. Diciamo che se mi va bene, rimangono 20 euro? Ora non ci vuole un genio dell’economia domestica per capire che è una cifra diciamo iniqua. Ho letto di alcuni intellettuali precari che risolvono mangiando 7 giorni su 7 pasta col tonno, io grazie a dio sono vegetariana e me la cavo mangiando il tonno senza tonno.
Mangiare il tonno senza tonno è sempre un bel risparmio.
Lasciamo stare il mio caso, che magari, chissà, non so scrivere (dubito. È l’unica cosa che so fare! E tutti sanno fare almeno una cosa nella vita).
Conosco alcune giovani firme del giornalismo italico, che hanno un curriculum e collaborazioni da paura. Quando leggo i loro scritti, svengo d’invidia. Perché sono bravi, intellettuali veri. Ora, mi ero fatta la fantasia che loro, seppur non sguazzando nell’oro, ci vivessero dignitosamente. Dove dignitosamente intendo avere almeno l’olio d’oliva per condirsi la pasta (e non vorrei strafare parlando di formaggio grana da grattuggiarsi eh). Bhè insomma, parla con uno parla con l’altro e scopro cose assai inquietanti. Anche quelli bravi bravi hanno in piedi collaborazioni non pagate, sottopagate, postpagate (anticipi che arrivano dopo mesi dal lavoro finito).
Io penso che nulla accade per caso, e se un paese decide di trattare a pesci in faccia chi lavora con le parole e con le idee, sotto vi è un disegno ben preciso.
E io morirò con una grande consapevolezza di questo.
Ma un po’ a pancia vuota mi sa.
Per concludere, uno stralcio del grandissimo Dave Eggers, uscito su L’Internazionale che pone l’accento su un altro aspetto a volte sottovalutato della vita dello scrittore, la staticità:
“Ho sempre evitato di parlare della “vita dello scrittore” da quando ho sentito pronunciare queste parole per la prima volta dieci anni fa. Ogni volta che le sento, mi tornano in mente le voci dei miei compagni di liceo e di università, dei miei zii e di mio cugino Mark, che avrebbe alzato gli occhi al cielo e forse mi avrebbe anche dato un pugno, piano, sul naso per aver tirato in ballo l’argomento. Quelle voci mi direbbero che è una frase pretenziosa: è pretenzioso riflettere sulla vita di chi scrive, e ancora più pretenzioso scriverne su un giornale.
La vita dello scrittore – almeno per quanto mi riguarda – non è così interessante. Ho appena rivisto Tutti gli uomini del presidente come faccio quasi ogni anno, e ogni volta mi meraviglio di quanto fossero interessanti le vite di Woodward e Bernstein al Washington Post, e di come il film riesca a raccontare l’accanimento e la casualità del lavoro del cronista, la straordinaria opportunità offerta da questo mestiere di andare in giro a fare qualsiasi domanda perché non si sa mai, potresti anche fare cadere un governo che se lo merita.
Quando guardo quel film penso anche a quanto è monotona la mia vita di scrittore. Per esempio, ora sto buttando giù questo articolo non nella caotica redazione di un giornale, ma in un capanno nel mio giardino. La finestra del capanno è coperta da un telo, perché altrimenti la mattina sarei abbagliato dal sole. Quindi ho davanti a me questo telo grigio, che è inchiodato alla parete in due punti e pende al centro in un grande sorriso grigio.
Il telo è sporco. E il capanno è sporco. Se lasciassi vuoto questo posto per una settimana, finirebbe per diventare un rifugio per gli animali del bosco. Ma probabilmente lo pulirebbero, prima. Ed è qui che passo sette-otto ore di fila al giorno. Sette-otto ore ogni volta che cerco di scrivere. La maggior parte di questo tempo lo passo immobile, in una situazione di stallo, quindi dopo sette-otto ore passate a fare finta di scrivere – seduto nella posizione giusta davanti allo schermo – ho lavorato davvero per un’ora. È un rapporto terribilmente sproporzionato e irragionevole.
Questo tipo di vita è in contrasto con la visione romantica che avevo un tempo – e che molti hanno – della vita dello scrittore. Immaginiamo più movimento. Immaginiamo una vita a cavallo. A dorso di cammello? Immaginiamo decappottabili, scogliere battute dal vento, fari. Non immaginiamo – o io non immaginavo – di dover passare tanto tempo seduti. Forse sembrerò ingenuo se dico che mi aspettavo di scrivere, che so, sciando. La natura profondamente sedentaria di questo lavoro mi pesa tutti i giorni. Mi pesa anche in questo momento. E così ogni tanto devo uscire dal capanno”.