Una tendenza molto diffusa nel genere umano è quella di attribuire difetti, malcostume, cattivo gusto, sciatteria agli altri. Sono sempre gli altri.
Perché ciascuno di noi si sente bello, unico e speciale.
Nessuno si sente massa, ma individuo.
(Anche perché se uno si sente massa, quanto meno deve mettersi a dieta).
Ma allora la domanda è: sti quintali di dischi di Céline Dion, chi li compra?
Ci viene in aiuto Nick Hornby, sulla mia Bibbia (L’Internazionale):

“Potrà sembrare un’affermazione azzardata, ma il tema centrale dell’imponente saggio di Carl Wilson su Céline Dion, Let’s talk about love: a journey to the end of taste (Parliamo d’amore, un viaggio al termine del gusto), per la collana 33 ⅓, è il terreno insidioso e mutevole del consenso critico e popolare. Quasi tutti gli altri titoli che ho letto di questa splendida collana (a eccezione del racconto di Joe Pernice ispirato dall’album degli Smiths Meat is murder) sono celebrazioni ben scritte ma convenzionali di album importanti della storia del rock: Harvest,Dusty in MemphisPaul’s boutiquee via dicendo. Ma questo libro è diverso. Wilson si pone la domanda: “Perché tutti odiano Céline Dion?”. Solo che naturalmente non sono proprio tutti, giusto? Ha venduto più album di quasi ogni altro artista vivente. Tutti adorano Céline Dion, a pensarci bene. Quindi, in realtà, la domanda che si pone Wilson è: “Perché io e i miei amici e tutti i critici di musica rock e quelli che probabilmente leggeranno questo libro e riviste come questa odiano Céline Dion?”. Le risposte che dà sono profonde e provocatorie, e vi costringono a chiedervi chi cavolo siete veramente. Soprattutto se – come tanti di noi da queste parti – date un grande peso al consumo culturale come indicatore sia del carattere sia, diciamocelo, dell’intelligenza. Che fichi che siamo! Leggiamo Jonathan Franzen e ascoltiamo i Pavement, ma amiamo anche Mozart e Seinfeld! Urrà per noi! In pochi capitoli brevi e devastanti, Wilson ci sega le gambe a tutti, pure le sue: “Sono sempre gli altri a seguire le masse, mentre il nostro gusto riflette il nostro essere speciali”.
Il posto di Let’s talk about love nella vostra libreria è accanto al saggio di John Carey What good are the arts?: sono due approcci simili al tema della costruzione del gusto, anche se Wilson lascia più spazio a Elliot Smith e ai Ramones di quanto non faccia il professor Carey. E in un certo senso, misurarsi con Céline Dion è un esercizio più diretto e rivelatore che non misurarsi con i feticci della cultura letteraria, come ha fatto Carey. Dopo tutto, esiste un accordo di base sulla competenza letteraria – su chi sa mettere insieme una frase e chi no – che rende problematico rifiutare in blocco i valori critici in letteratura. Nella musica pop, però, entrano in gioco una serie di giudizi completamente diversi. Siamo disposti a salvare artisti che non sanno cantare o costruire una canzone o suonare uno strumento, purché siano alla moda, trasgressivi o ribelli: non snobbiamo Céline Dion perché è incompetente. In realtà, la sua competenza può addirittura essere un problema, perché significa che non esclude nessuno, a parte noi. E quelli che investono molto in capitale culturale non amano l’arte che non esclude: ci disorienta e non ci aiuta a incontrare persone attraenti dell’altro sesso che la pensano come noi.
Il libro di Wilson non è solo importante, è anche pieno di fatti. Sapevate che in Giamaica Céline è amata soprattutto dai tipacci più violenti? “Ormai ho imparato che se mi trovo in un quartiere che non conosco, la voce di Céline Dion è il segnale per affrettare il passo”, spiega un critico musicale giamaicano”.

Ma infatti.
Si sa che i delinquenti veri ascoltano i neomelodici italiani. I Club Dogo, Marilyn Manson, tutta la musica satanista, brutta cattiva e violenta è teatro. Roba da cameretta adolescenziale. Più è cattiva la musica che ascolti, più sei buono. Chissà se vale anche: più è di nicchia la musica che ascolti e più sei di massa…

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