Amy Jade Winehouse (Londra, 14 settembre 1983 – Londra, 23 luglio 2011)

Mi ero occupata di Amy Winehouse poche settimane fa, dopo il disastroso concerto di Belgrado. In un invito al rispetto e alla comprensione, tracciavo un parallelo con Janis Joplin e mi auspicavo che qualcuno potesse arginarla, affinché non finisse anche lei in quel famigerato club dei 27. Ahimè. Quando la notizia della sua morte si è diffusa mi trovavo nella tempesta di Villa Tempesta. C’era ancora il sole e suonavano i Pan Del Diavolo. La voce ha cominciato a girare, e poi mi sono arrivati un sacco di sms, giacché i miei amici ci tenevano a rovinarmi una serata, casomai non l’avessi già saputo! Poco dopo, il cielo si è fatto molto nero e la pioggia è scesa a non finire. Lavorando di fantasia ho voluto pensare che il cielo si fosse vestito a lutto per salutare Amy. A me lei piaceva tantissimo, perché aveva un timbro di voce che adoro (da diva del soul anni 40?) e mi aveva colpito subito, ai tempi di “Frank”… quando il lungimirante Ricky Russo mi aveva passato il cd dicendomi quanto sta giovinetta sarebbe diventata famosa. Vorrei ricordare appunto che il suo primo album è uscito nel 2003, e che l’abbiamo vista e amata anche (e soprattutto) con le guance un po’ paffute, il seno naturale e proporzionato al suo fisico, il sorriso, i tatuaggi che cominciavano a comparire un po’ per volta. Guardi le foto dell’epoca e la vedi bella e in salute, spesso avvolta in una larga felpa Adidas. Eppure ora le foto che circolano sono monotematiche: esiste solo l’ultimo periodo. Magra come uno scheletro, seno siliconato che impietoso fuoriesce dal vestito, sguardo spettrale, capelli scarmigliati, viso scavato, cicatrici, pelle rovinata. Dico… cari manager strapagati e uffici stampa deluxe… quante di queste foto avreste potuto legalmente bloccare? Salvaguardare la dignità dell’artista dovrebbe essere tra le vostre priorità, cari professionisti del music business. Invece hanno contribuito alla diffusione dell’immagine di lei che i media hanno voluto gettare in pasto al pubblico assetato di gossip. Amy la rovinata.
Amy la morta che cammina.
Amy la pazza.
Ma in 27 anni, questa ragazza è stata molto, molto altro. Ma forse il suo destino era già scritto, come
scrive Massimo del Papa:“A vederla barcollare sui tacchi, sempre più magra, la faccia butterata e appassita, le tette rifatte, la pelle come una spaventosa tappezzeria di tatuaggi, la luce strana negli occhi che hanno i nati male, i ribelli senza causa, si capiva che non poteva durare, che nessun rehab, la riabilitazione dei ricchi e famosi, avrebbe potuto aiutarla. La singer di talento, voce straordinaria, pettinatura cotonata come una Ronette, una delle femmine perse degli anni ’60, che l’avevano preceduta, ha sgranato il suo rosario dissoluto salendo una ad una le tappe di un calvario autoinflitto, così come pretende la tradizione del blues, del soul, le musiche predilette, le uniche che una così poteva interpretare. Perché una così è la sua musica ed è la sua dannazione. Ci nasce, ci muore.
 Si prova sempre un senso di impotenza quando una ragazza di neppure 28 anni naufraga, quando si arrende, successe con Kurt Cobain, il cui Nevermind compie 20 anni proprio quest’anno, era successo con Morrison, 40 anni fa esatti, successe con Hendrix, con la Joplin, con Brian Jones, ma alle rockstar che morivano in estate non eravamo più abituati, parevano storie perdute, di un passato improbabile. La Winehouse, diventata ingombrante prima di consacrarsi grande davvero, ci riporta indietro, ci fa capire che è ancora lo stesso, che non c’è scampo, e che non sei tu a scegliere una musica infernale, una vita mortale, è che se ci nasci solo quello puoi fare, cantare il blues, la disperazione, l’autodistruzione fino alla fine, che arriva puntualmente troppo presto”.

La morte di Amy mi ha fatto una tristezza enorme per due motivi: da una parte per la perdita di una ragazza giovane, sofferente, piena di talento che nessuno ha potuto o voluto aiutare; dall’altra parte mi ha scatenato una tristezza enorme constatare quanti siano gli infiltrati alieni/cattivi tra gli umani. Se non c’è rispetto neanche davanti alla morte,
siamo davvero al capolinea.
Vediamo un po’ di analizzare e smontare alcune atrocità, circolate perlopiù sugli anti-social network.
1.    Se l’è cercata. Osservazione intelligente! Ogni ragazza sogna di morire a 27 anni sola e rovinata dall’alcol e dalla droga. È giusto al secondo posto, subito dopo a “trovare il principe azzurro e vivere in un castello”. Diamine, ognuno di noi cerca di essere felice. Ognuno di noi, spesso non ci riesce. Ognuno di noi ha una serie di debolezze che non riesce a gestire. Ed è una lotta continua. Salute, dieta, fumo, abusi e dipendenze, depressione, ansia, aggressività, tradimenti, rapporti con gli altri: chi di noi ha tutto sotto controllo? Se una persona ha dei problemi con il cibo e ad un certo punto muore per anoressia, colesterolo alle stelle, tumore causato da alimentazione sbagliata: se l’è cercata? Magari ha provato, a correggersi. Magari era così debole da non riuscire neanche a provarci. Facciamo allora una distinzione tra cercarsela e non sapersela gestire. Alzi la mano il bullo che la propria vita se la sa gestire al 100%. Alzi la mano il genio che non ha mai messo a repentaglio la propria vita, magari una volta sola, da incosciente, da giovane, da bambino che si arrampica su un albero rischiando di schiantarsi giù.
2.    Ben le sta! Era una tossica. Nel 2011 c’è ancora qualcuno che non capisce che la dipendenza è una malattia. Gente fortunata, che non ha mai perso delle persone care per dipendenze. Io le ho viste un po’ tutte da vicino: dipendenze da alcol, droga, psicofarmaci, dal gioco. Alcune sono finite bene, altre – la maggior parte – male (e quando dico male intendo: una morte orribile). Non auguro a nessuno di provare questo immenso dolore. Per chiarire un po’ le idee, ecco cosa scrive il marito di Katy Perry, Russel Brand in una lettera di questi giorni indirizzata ad Amy: “Quando si ama qualcuno che soffre della malattia della dipendenza ti aspetti la telefonata. Ci sarà una telefonata. L’auspicio sincero è che la chiamata verrà dal tossicodipendente stesso, che ti dice di averne abbastanza, che è pronto a smettere, pronto a provare qualcosa di nuovo. Naturalmente, però, si teme l’altra chiamata, il triste rintocco notturno da un amico o un parente che ti dice che è troppo tardi, se n’è andata. Frustrante è che è impossibile intervenire. (…) Tutti i dipendenti, al di là dalla sostanza o dal loro status sociale, presentano un sintomo costante ed evidente: che non sono molto presenti quando si parla con loro. Loro comunicano attraverso un velo appena percettibile, ma non-ignorabile. (…) c’è un’ aura tossica che impedisce il collegamento. Hanno l’aria di essere altrove, che stanno guardando attraverso di te, da qualche altra parte dove preferirebbero essere. E naturalmente lo sono. La priorità di ogni dipendente è quella di anestetizzare il dolore e arrivare a fine giornata con un minimo sollievo. Ora Amy Winehouse è morta, come molti altri le cui morti inutili sono state retrospettivamente romanzate, a 27 anni. Se questa tragedia fosse evitabile o no è irrilevante. Non è prevenibile oggi. Abbiamo perso una donna bella e di talento per questa malattia. Non tutti i tossicodipendenti hanno l’incredibile talento di Amy. O Kurt o Jimi o Janis, alcune persone hanno solo dolore. Tutto quello che possiamo fare è adattare il nostro modo di vedere questa condizione, non come un crimine o un vezzo romantico, ma come una malattia che uccide. Dobbiamo rivedere il modo in cui la società tratta i tossicodipendenti, non come criminali ma come persone malate bisognose di cure. Abbiamo bisogno di guardare il nostro modo in cui il governo finanzia la riabilitazione. E’ più economico riabilitare un tossicodipendente piuttosto che mandarlo in prigione, così la criminalizzazione non ha senso nemmeno economicamente. Non tutti conoscono qualcuno con il talento incredibile che Amy aveva ma conosciamo tutti ubriachi e drogati e tutti hanno bisogno di aiuto, e l’aiuto è là fuori. Tutto quello che devono fare è prendere il telefono ed effettuare la chiamata. Oppure no. In questo caso, ci sarà comunque una telefonata.”
3.    Che vergogna parlare della Winehouse con tutti i morti innocenti in Norvegia. Oppure: “se muore un operaio nessuno ne parla”! (giuro le ho sentite entrambe). Ragazzi, c’è la musica e c’è la cronaca nera. Io mi occupo della prima. Provo rispetto e partecipazione per la vita e la morte degli altri. Non direi mai che non me ne frega nulla di una vita umana che se ne va, fosse anche in maniera stupida o auto-inflitta. Credo che ogni essere umano debba provare empatia. Ma il grado di coinvolgimento ed emotività cambia a seconda della vicinanza. La morte di tua madre ti sconvolge più della morte della madre del tuo vicino di casa. La morte della madre di uno sconosciuto ti tocca meno della morte della madre del tuo vicino di casa e così via. È normale, altrimenti vivremmo a lutto tutta la vita. Quando muore un personaggio pubblico, mi sento coinvolta tanto quanto questo personaggio pubblico ha rappresentato per me. Ancora oggi provo commozione se penso alla morte di Pier Paolo Pasolini o di Andrea Pazienza, tanto per fare due esempi. Il rammarico di non aver potuto fruire ancora del loro genio e delle loro opere. Non ho sentito così intensamente la morte di Pietro Taricone o Mike Bongiorno, ma non mi sarei mai sognata di scrivere che non me ne importa nulla, o peggio lanciare offese. Rispetto, distacco e silenzio. La morte di Amy mi tocca particolarmente, perché la sua musica mi ha regalato belle sensazioni. È una che mi ha dato ed in qualche modo sono in debito. Se muore un operaio nessuno ne parla? Stai certo che i suoi cari ne parlano. Le vite umane sono tutte degne.
4.    Non mettiamo la Winehouse al livello della Joplin! Era una che scopiazzava di qua e di là.Voglio dire, siamo nel 2011. I margini di innovazione nella musica sono davvero limitati. Era più facile proporre qualcosa di nuovo nei decenni passati… (e poi la stessa Joplin si rifaceva alle eroine blues degli anni precedenti). Oggi è molto probabile suonare in qualche modo derivativi. Eppure la Winehouse era un’interprete di anima e spessore, con un timbro abbastanza particolare e con una certa personalità, infatti molte cantanti in questi anni sono state identificate come “cloni” della Winehouse (pensiamo, in Italia, a Giusy Ferreri e Nina Zilli). Il resto ce lo dirà la storia: vedremo tra 10-20-30 anni quanto la Winehouse avrà lasciato un segno.

Per concludere: io mi occupo di musica, e la morte di una rockstar mi coinvolge, mi interessa, mi rattrista. Sento il bisogno di parlarne, di esprimere cordoglio e dare il mio piccolo personale omaggio, l’unico possibile: far suonare i suoi dischi. Già che non sono una bestia, mi spiace anche se muore Gino l’operaio eh. Non gli dedico una rubrica, come non la dedico ai morti della Norvegia perché non mi occupo di cronaca nera. Bensì di musica. Una di quelle invenzioni grazie alle quali noi umani possiamo esprimere la nostra umanità e bellezza. Una di quelle invenzioni grazie alle quali possiamo elevarci al di sopra della bruttura e della cronaca nera. Gino l’operaio resterà indelebile nella memoria dei suoi cari, chi ha prodotto musica (o arte in qualsiasi forma fruibile da un pubblico) resta indelebile nella memoria collettiva, è un concetto abbastanza banale, no?
Ciao Amy, che tu possa riposare in pace. Resterai eternamente giovane, come immortali ed eterne resteranno le tue canzoni. Io credo che la storia, sta volta, mi darà ragione.

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