EDDA “ODIO I VIVI” RECENSIONE

“Nessuno se lo aspettava più da te” cantava Stefano Edda Rampoldi con i suoi Ritmo Tribale, negli anni 90. Frase che può girare su di sé, oggi. Nessuno, dopo più di dieci anni di distanza si aspettava un ritorno sulle scene. Tanto meno, un ritorno così folgorante. Eppure, Edda ha inanellato una sorpresa dopo l’altra, pubblicando nel 2009 un debutto solista (“Semper Biot”, Niegazowana) tanto intenso e sincero da far male. In punta di piedi, “tra tragedia e miracolo”, si è riaffacciato a quel mondo musicale da cui era fuggito. Prima timoroso, poi pian piano più sicuro e determinato grazie anche ai riscontri, più che incoraggianti. Qualche massiccia iniezione di autostima, da sempre così carente in un artista tanto talentuoso quanto insicuro di sé e alla ricerca di continue conferme e attenzioni (bramate e poi puntualmente schivate quando si fanno pressanti), ha fatto sì che il primo disco non fosse un commiato, come il cantautore milanese aveva annunciato nel 2009, ma il primo capitolo di un nuovo percorso che ha portato poi ad una serie di concerti in giro per l’Italia, all’uscita dell’ep live “In Orbita” nel 2010, ed oggi alla pubblicazione di “Odio i Vivi” (Niegazowana). Un album molto diverso dal precedente (e meno male… nessuno può essere – tanto meno un artista -, a distanza di un anno, due anni, tre anni identico a ciò che era), ma che mantiene le stesse caratteristiche di base: purezza cristallina, densità e spessore, originalità, incatalogabilità e rara bellezza. Si ripete anche un’implicita richiesta all’ascoltatore: la disponibilità ad aprire mente, cuore, stomaco, abissi interiori oltre che orecchie. Come per il precedente lavoro, le dieci canzoni presenti sono frutto della collaborazione ed imprescindibile unione artistica/umana tra Edda e l’autore (di testi e musiche) Walter Somà. Una coppia che sembra avere un metodo di composizione infallibile: laddove l’uno porta il sacro, l’altro aggiunge il profano; allo spirito si accosta la carne; al sublime la desolazione; alla salvezza la perdizione; al peso la leggerezza e così via, in un gioco di opposti che si perpetua all’infinito e che crea molti mondi possibili. Senza divisione netta di ruoli: ognuno è diavolo e santo, ognuno porta oro e fango da impastare assieme alla materia magica che dà corpo alla musica. Perché ciascuno è umano. Anzi, ciascuno è semplicemente un uomo. Seppure con un bagaglio di sensibilità e ispirazione che il 90% del genere umano può scordarsi. Difficile attribuire confini netti di paternità dei brani: parole e musiche di Somà stravolte, rivedute, incrociate, si incastrano con le parti pensate e composte da Edda, che spesso attinge a piene mani – oltre che ad un suo vocabolario interiore strambo, personale e originale al 100% – anche a ciò che vede, sente e percepisce nel mondo attorno. O ai suoi ascolti passati e presenti (questi ultimi, a dire il vero, abbastanza casuali e disordinati), citando, omaggiando e a volte perfino auto-citandosi come avviene in “Anna” dove compaiono alcune parole di “La Città” dei Ritmo Tribale: “Perché con me tu fai così/ Perché non esci più di lì”. Ma può saltare fuori davvero di tutto dal cilindro che contiene l’immaginario di una vita intera: nella sola “Marika” si passa dall’infanzia con Topo Gigio (“ma cosa mi dici mai”) alla giovinezza con gli Allegri Leprotti (collettivo musicale milanese fine anni Settanta) che Edda ricorda di aver sentito su Radio Blackout, ai più recenti Tre Allegri Ragazzi Morti (forse, chissà, citati più per assonanza che per una conoscenza approfondita della band pordenonese). E poi il calcio (“stasera gioca l’Inter”), o frasi carpite alla quotidianità: “Grazie alle puttane ubriache” qualcuno l’ha scritto in zona stazione di Vergiate e Stefano l’ha messo in un testo, immaginando l’estasi di colui che – colpo di fortuna – si è imbattuto in una puttana ubriaca. E poi l’incontro con Gionata Mirai che ha portato a un piccolo scambio: la canzone “Gionata” scritta da Mirai e Somà finisce in “Odio i Vivi” mentre uno stralcio di “Odio i Vivi” di Rampoldi e Somà viene riarrangiata e stravolta da Mirai e finisce in “Cleveland/Baghdad” del Teatro Degli Orrori.

La produzione di Taketo Gohara è regale, con innegabile ricchezza e ricercatezza di suoni e di strumenti (dagli archi ai fiati, fino alla marimba e le altre percussioni di Sebastiano De Gennaro, il pianoforte di Cesare Picco, le chitarre di Asso Stefana, il contrabbasso di Filippo Pedol e molte altre stranezze, come le lamiere di ferro di Dario Buccino o la sega musicale di Francesco Arcuri), il tutto al servizio della particolare voce di Edda, una di quelle voci che toccano corde interiori e smuovono nel profondo, fino ai limiti dell’irritazione, per quanto si insinua sottopelle. La voce di Edda è un ospite che devi avere invitato ad entrare con consapevolezza, dopo aver sistemato la casa (come si fa a prova di bambino, così la si attrezza a misura di Edda), sennò è un casino. Se ti capita in casa a sorpresa ti mette tutto a soqquadro e tu non sai più come riassettare. E rischi di rimanere scombinato per sempre.

Da un lato gli arrangiamenti orchestrali di Stefano Nanni (che hanno spinto molti ad immaginarsi alcuni brani come “Emma” o “Anna” in versione Sanremo) e dall’altro Edda, che con spirito punk irrompe suonando la chitarra elettrica in maniera stortissima. L’effetto psichedelico è assicurato. Più che indurre al sogno, l’ascolto conduce in un viaggio/allucinazione dove è bene restare sempre vigili e pronti alle sorprese. Perché nulla è scontato e dentro ad ogni canzone sembrano celarsene altre, una dentro l’altra a matrioska. E di fatto è così: l’inedito dei Ritmo “Il Grande Brescia” spunta in “Topazio”, “Stupidi ambienti” di Walter confluisce in “Odio i Vivi”, “Le parole giuste” sempre di Walter prende nuove strade in “Tania” e così via dando vita a canzoni dalle strutture assolutamente inusuali. “Emma”, forse ancor prima che Edda incontrasse Emma, parlava di un rumena, arrivata in Italia su una cisterna. E diceva più o meno:
”Le strade finiscono qua/ va bene divertiamoci un po’/ ma dimmi di sì/ (Sei bella) Ti chiami Elda/ stella/ Da Romania/ sulla cisterna. Strade/ mi dicono che/ Ho sbagliato tutto nella vita/ ma mi ha portato a te/ Tu che sei bella/ Elda/ Stella/ Da Romania con la cisterna/ è tutto così con me/ anzi è orribile/ inaccettabile/ e un equilibrio non c’è/ è tutto così con me/ forse è difficile/ anzi è orribile/ inaccettabile/ ma un equilibrio non c’è”. Nel 2008 Walter, su una prima bozza di questa canzone, intitolata provvisoriamente “Strade” mi scrisse: “Secondo me dentro si intuisce un territorio espressivo nuovo. Vorrei puntare in quella direzione”. Tanto per citare una delle tante storie dietro ad una di queste canzoni.

 

“Odio i vivi/ ho i miei motivi”: lo borbotta Charlie Brown in una delle celebri strisce di Schulz, finita abbastanza casualmente tra le mani di Edda durante la composizione dei nuovi brani. Edda giura di tenerseli per sé, i suoi motivi. Ma se c’è una cosa che non sa fare è tenersi i segreti. Quindi li sciorina uno dopo l’altro.
Edda odia i vivi, perché muoiono. Perché lasciano voragini quando ti lasciano, perché magari chi desideri davvero non ti vuole (e tu lo desideri ancora di più proprio perché non ti vuole), e chi invece ti offre il suo amore ti incatena con un sentimento pesante come un macigno, impossibile da sostenere tanto più per chi non trova un posto al mondo, eterno outsider anche tra gli outsider. Edda odia i vivi perché sono complicati, indecifrabili, volubili. Edda odia i vivi perché odia far parte della categoria dei vivi, ovvero degli schiavi del corpo e di tutto ciò che è terreno. Ma soprattutto Edda odia i vivi perché li vorrebbe amare, ma come si fa ad amare (tutti) quando non si ama manco se stessi?
 

“Le canzoni, quelle belle, hanno sempre una storia alle spalle. Le canzoni bellissime hanno una storia – e una donna – alle spalle”. (“Canzone per te” Labianca/Bardotti; Arcana).

Il filo conduttore (o forse il semplice pretesto) del disco è l’ossessione per la donna, le figure femminili sono ricorrenti nella maggior parte dei titoli (“Emma”, “Anna”, “Marika”, “Tania” e anche “Topazio” Topa-di-zio a dirla tutta).
E l’ossessione per la madre (Edda non è che il nome di sua mamma, e Stefano Rampoldi lo scelse molti anni fa come nome d’arte che si porta appresso tutt’oggi, “sono proprio il figlio di Edda/ sono proprio il figlio di Edda”): “perché le madri amore mio/ ti uccidono”. Si badi a quante volte la parola madre fa capolino tra i testi, sempre con una certa irruenza (“ammazza mia madre/ ammazza tuo padre”; “a me non interessa se tu sei mia madre” etc).
Cos’altro è se non un omaggio (ma anche uno sberleffo) alla maternità quell’enorme seno naturale zero silicone che troneggia in copertina? Ode alla madre. Odio alla madre.
Odio a colei che dà la vita. “Odio i vivi ho i miei motivi”.

“Anna tu sei l’unica. Cristina tu sei l’unica”. Emma tu sei l’unica. Tania tu sei l’unica. Marika tu sei l’unica. (“Non riesco più a capire se devo fingere o tradire”). Ogni donna è unica? Solo la madre è unica. La madre è santa. La donna è sgualdrina. La madre è sgualdrina. La donna è santa. In cortocircuito. Da uscirne matti. “Senza tua madre tu non vivresti”. Ci sono le parolacce, certo (e forse per questo, quella di “Emma” a Sanremo non può che essere una fantasia). “Perché tutto attorno è talmente volgare che non può essere rappresentato altrimenti”, mi spiega Stefano. E anzi, dal vivo – garantisce – “il linguaggio si fa ancora più colorito”, al limite della bestemmia, perché la realtà va raccontata con parole reali e crude. E perché dirle è uno sfogo, un esorcismo. Ma poi chi decide cos’è volgare? La poesia non dovrebbe avere limiti. Indugiare nel torbido a volte pulisce e risana. O ci tiene lontani dall’ordine di facciata di chi nasconde lo sporco sotto il tappeto. E quando dentro te l’oscurità imperversa (“guardami/ io sono l’uomo più nero”) non ci sono parole dolci per dirlo.

“Tania fammi un giuramento”: la promessa di un finale dignitoso, l’eutanasia. Tania santa e paziente, unica fra le uniche. Stefano si ispira alle immagini di una ragazza morta cerebralmente ma tenuta in vita dalle macchine e supplica Tania di non fargli una cosa del genere, dovesse succedere a lui. Tania stacca la spina, ti prego. “Stefano muori così/ felice di essere stato qui”.

Mentre i suoi amici hanno figli e famiglia, lui ha sempre fame, ci dice in “Anna”. Una morsa interiore che lo spinge a ingurgitare, vomitare, rimangiare, ri-nausearsi all’infinito, senza mai trovare pace e soddisfazione. Senza mai essere sazio di amore, di vita, di donne.

Di cibo (“dev’essere difficile far da mangiare ci provo e mi viene male/ mangio solo come un’animale”) e di sesso (“se ti scopi uno come me/ perché io so fare l’amore bene”). Un amore tanto anelato, e una volta ottenuto ripudiato. E poi, cercare invano di difendersi, col non attaccamento che gli deriva in parte dalla religione hare krishna a cui si è sempre accostato, senza riuscire a sposarla totalmente ma traendone alcuni insegnamenti (“e allora non mi attaccare alle cose alle persone/ che non mi serve a niente/ ricordalo continuamente”). Ma ricaderci di continuo e affezionarsi e soffrire. Farsi intrappolare dalle pulsioni, dal corpo famelico che ha il sopravvento sulla ragione, da un amore che si scioglie come neve al sole o, più crudelmente “diventa merda, dopo due settimane” come uno yogurt che ti scade nel frigorifero a velocità della luce. Perché succede? Azzardo: per un meccanismo interiore guasto, perché “nessuno sa come può rovinare la mia vita meglio di me”. Perché alcuni di noi, proprio non sono capaci di fare quella che dovrebbe essere la cosa più semplice del mondo: amare ed essere amati. Perché per qualcuno di noi, l’anima gemella che credevamo fosse assegnata di default da Madre Natura, non esiste e non esisterà mai. E se anche ce la trovassimo davanti, non la sapremmo riconoscere e le diremmo “evidentemente tu non sei il tipo/ capace di farmi innamorare”. Tanto non ci basterebbe a colmare quel vuoto primordiale che ci portiamo da vite precedenti, che sconteremo fino alla morte e che forse colmeremo soltanto in prossime più fortunate reincarnazioni, volenti o nolenti (“io già lo so che rinascerò/ ma un altro corpo gesù bambino no/ io già lo so che rinascerò/ ma un altro corpo non sopporterò/ io già lo so che rinascerò/ ma un altro corpo per favore no”).

Forse è proprio questo deficit, questa eterna mancanza che spinge, sostiene e si trasforma in forza dirompente quando Edda fa ciò che al mondo gli viene meglio.
Cantare, strillare, ululare, latrare.

Farci stare bene.

Farci stare male, ancora una volta.

E “per tutta la vita”.

 

«Quando canto, libero energia bella.
Quando canto, sono una persona migliore». (Edda, Milano 18.02.12).

 

 

 

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