EDDIE CAT, “EMPTY FILLS” guida ai brani con commento dell’autore

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E' uscito il cd del songwriter anglo-italiano Eddie Cat, «Empty Fills». L’album sarà presentato ufficialmente dal vivo giovedì 11 aprile al Tetris di Via della Rotonda a Trieste ed il 18 aprile al Contestaccio di Roma.

«Empty Fills» è stato registrato alla Casa della Musica (Urban Recording Studios) di Trieste, co-prodotto dall’autore assieme al produttore e sound engineer Fulvio Zafret. Il mastering è stato curato da Nick Watson a Londra. La band, su disco, include: il chitarrista di Parma Daniele “Big Bear” Morelli, i triestini Marco Seghene al basso e Marco Vattovani alla batteria. Dal vivo si aggiunge la chitarra di Mirco Biasutti.

 

Edward Carl Catalini, in arte Eddie Cat non ama essere definito artista. Secondo me per un duplice motivo: quello da lui dichiarato, di dover poi reggere il confronto con quelli che Artisti lo sono stati davvero (sì, tipo quelli protagonisti degli LP delle collezioni di vinili dei nostri genitori, o come quelli che muoiono a 27 anni e già hanno lasciato solchi eterni nella storia della musica; e chi osa mettersi sul piano di leggende, miti ed icone?) e poi, io credo, per il motivo un po’ sottaciuto ma implicito di non voler avere nulla a che fare con la boria di certi contemporanei che si auto-definiscono artisti, poeti, geni, guru senza averne poi tutte le credenziali. Pur capendo entrambe le ragioni (e pur apprezzando molto l’umiltà), per come percepisco la musica, posso affermare senza timore che Eddie Cat è un Artista al 100% poiché ha un talento raro (sia come cantante che come chitarrista), personalità, grande passione ed una capacità compositiva notevole. Ciò lo rende più artista di tanti che hanno, impropriamente, il patentino di artista. Ma tanto, tanto di più. Che poi se non è Arte la capacità di scrivere canzoni che emozionano, che cosa sarà mai Arte? Ma queste sono solo definizioni, ed è il tempo a fare giustizia e a stabilire, in campo artistico, cosa rimane e cosa non lascia invece alcuna traccia.
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Eddie vive a Trieste da 13 anni, e qui si sente a casa. Dai triestini sembra aver preso un po’ il piacere della lentezza. Mi vengono in mente le parole di Mauro Covacich in “Trieste Sottosopra”: «Accanto alla Trieste austro-ungarica è sempre esistita un’altra Trieste. Accanto alla città dei caffé letterari, della composta amicizia di Svevo e Joyce, c’è sempre stata un’altra città, morbida, disinvolta, picaresca, dai connotati quasi carioca. C’è un edonismo antico, morale, nei triestini. E anche un vitalismo moderno un po’ easy-going, alla californiana. Trieste è una città meridionale, la città più meridionale dell’Europa del Nord». Ecco, credo che Eddie sia in sintonia con quest’altra Trieste, che lui definisce «un’isola sospesa, un po’ fuori dal tempo, con un calma apparente, con uno squallore decadente che però non è trascuratezza».

Eddie è ormai triestino d’adozione. Ma è nato a York e ha vissuto in un sacco di posti diversi (dall’Etiopia alla Polonia), dovendo seguire gli spostamenti di lavoro dei suoi genitori (la mamma inglese ed il papà italiano). Cosa che, nell’età della crescita, ti offre l’opportunità di sviluppare una visione del mondo ed un’apertura mentale che i tuoi coetanei “stanziali” si sognano. Ma come contro parte, sviluppi un senso di sradicamento non da poco. Penso che la musica sia arrivata nella sua vita come punto fermo, anche un po’ per colmare i vuoti e (svuotare i pieni) di una vita vagabonda. Penso che la musica l’abbia tenuto insieme, anche nei momenti in cui il resto andava a pezzi.

Riempimento di vuoti/ vuoto che riempie: «Empty Fills». Anche se il titolo nasce per un'esigenza pratica (spiega Eddie: “dovevo chiedere al batterista di fare dei lanci vuoti, rullate vuote, e non mi veniva l'espressione in italiano, così gli ho detto in inglese di suonarmi degli empty fills”), il richiamo ai vuoti simbolici (e non) da riempire nella vita è forte, o comunque si presta bene. Per me, in questi primi mesi del 2013, quest’album ha riempito il vuoto di dischi Made in Italy degni di essere ascoltati e ri-ascoltati.

«Empty Fills» è un disco di canzoni come una volta (sì, lo ripeto: come quelle dentro agli LP dei nostri genitori). Ogni brano racchiude un mondo a sé. Non ci sono riempitivi: ogni episodio ha senso. Sebbene ci siano delle escursioni impegnative nei territori più oscuri dell’anima, se ne esce tuttalpiù con un velo di malinconia, mai di disperazione assoluta. La componente di luce è forte. Più che la luce della speranza, sembra di scorgere la luce della bellezza. Bellezza delle piccole cose, dei dettagli. La bellezza che nella vita trovi nella musica, nell’affetto di un cane, nella consapevolezza di aver amato, nella certezza di potersi rialzare dopo ogni caduta. Come in un film senza grossi effetti speciali. Nella vita è fondamentale imparare a lasciare andare, anche le cose che ti sono più care. Il non attaccamento alle cose e alle persone: la ricetta se non della felicità perlomeno dell’equilibrio, sta un po’ qui.

L’idea portante è di fare un album scarno, suonato quasi esclusivamente da quattro elementi con un utilizzo parsimonioso delle sovraincisioni. Non sovraccaricare troppo, ma concentrarsi sulla cura dei suoni che ci sono. Sembra che non ci sia una sola nota fuori posto, o messa per caso: come se tutto fosse forgiato e cesellato alla perfezione, ma con naturalezza. In modo da risultare raffinato, ma non ricercato. Perché «Empty Fills» suona da paura. E in Italia escono pochi dischi che suonano così. Che suono è? È il suono del legno (“wooden sound”).

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Guida ai brani con commento dell’autore

 

ed«So Cruel», brano d’apertura, è un potenziale singolo, molto radiofonico con un ritornello che rimane in testa fin dal primo ascolto. È un pezzo nato almeno 16 anni fa che forse il suo autore avrebbe lasciato cadere nel dimenticatoio, non fosse che tutti quelli che lo avevano sentito (a partire da Zafret e Centis alla Casa della Musica), ne rimanevano folgorati. Talmente folgorati che sarebbe stato un crimine non inserirlo in «Empty Fills». L’unico modo per liberarsi di questa canzone, custodita dentro così a lungo, era inciderla e darle vita propria, fuori. «L’ho inserita soprattutto per liberarmene, in qualche modo. Alla fine sono contento di averla registrata. Dicono che funziona», commenta Eddie. Del testo, racconta: «c’è un po’anche la mano di mia sorella. Lei è una divora libri, vivrebbe soltanto di libri. Si è rovinata la vista da bambina: era una di quelle che si nascondono sotto le coperte di notte con la torcia per continuare a leggere. È una persona molto colta. È sua l’immagine: “You’ve been skimming on my mind/ For far too long/ I can’t smooth the ripples even now/ That it’s all gone”: “hai pattinato così a lungo sulla superficie della mia mente che non riesco ad allisciare i trucioli di ghiaccio anche adesso che è tutto finito”». Parla della fine di una storia, e la colpa in questa circostanza è della donna “crudele”. «È un argomento banale. Sono cose banali ma non certo per chi le vive. Il massacro, il genocidio sentimentale è mondiale. In ogni momento c’è un sacco di gente che sta soffrendo le pene dell’inferno per amore e poi magari quando ci si guarda indietro si pensa: “ma che cazzata!”. Però quando ci sei dentro è un massacro. La cosa tragica è che davvero è una cosa banale, sciocca, che capita ovunque, però lacera. È un rasoio non affilato che però lacera di brutto». Promesse cancellate come lettere sulla sabbia dall’acqua dell’oceano. «C’è poi l’immagine stra-usata delle ali “I’ll spread my wings and fly”, ma in questo caso sono le ali della droga per andare su (to get high) quasi un voler far pesare all’altro: “mi vendico dandoci dentro, tanto è colpa tua”. Che poi è anche infantile, alla fine. Ma mica tanto. C’è gente che quando cresce continua a farlo!». Come in altri brani, anche qui c’è l’apertura distorta, poi la chitarra portante di Morelli, la batteria è suonata da Zafret. Un brano di altri tempi, che per come suona scarno potrebbe essere degli anni 80 o anche 70, perché no?, se si pensa ad un brano come «You’re So Vain» di Carly Simon. 

 

Eddie cat1«Loneliness» è uno dei brani più intensi e oscuri (nonché più riusciti) dell’album. Nella sua parte più cupa, fa quasi male per quanto scava, e potrebbe essere stato scritto da un’icona del rock grunge della Seattle anni 90, per esempio Layne Staley degli Alice in Chains, uno che di tormenti e solitudine ne sapeva. Non fosse che, dopo l’oscura partenza, il brano apre molto, soprattutto nel finale, con gli archi – struggenti – che arrivano davvero nel momento giusto: il violino e la viola suonati da Tony Kozina, il violoncello da Marianna Sinagra. Dice Eddie: «È un pezzo fortunato. Volendo, si fa facilmente un disco deprimente. Se devo essere sincero è più difficile fare qualcosa di carino e solare. Ne ho ascoltata tanta di musica per cui puoi suicidarti dopo averla sentita! Invece sono contento di questo insieme di brani diversi, che escono bene come singoli brani. Se superi “Loneliness”, con la sua atmosfera, riesci a sentire tutto l’album!». Si va in alto, si cade in basso, ci si rialza e più in alto si va, più è tragico l’impatto con il suolo. Ma il cuore batte ancora, e la morte è lontana.

  
«Tell Me» è tra i brani più energici ed arrabbiati dell’album. L’ascoltatore rimane piacevolmente sorpreso dal cambio di registro e dalla varietà dei primi tre pezzi: c’è da abituarsi perché sarà così fino a fine album. Difficile incanalare il tutto in un genere preciso, ci sono tanti riferimenti, dovuti agli ascolti dell’autore ma sono sempre filtrati dalla sua visione e dalla sua personalità. Senza giri di parole Eddie spiega il testo: «È dedicata a tutte le persone che mi stanno sul cazzo. È un po’ legato anche al discorso sugli artistoidi che vogliono fare sempre i profondi o altro. “Dimmi chi cazzo credi di essere. Odio la tua filosofia da due lire, la forma ristretta della tua mente. Non ho mai avuto nulla a che fare con te in fin dei conti. Adesso sei qui davanti a me che ti vanti dell’estensione della tua conoscenza, ti dirò direttamente che non ti sopporto più. Sono stufo di tutte le chiacchiere, sei solo una merda secca che crepa al suolo, ti detesto e non sono l’unico”, può essere rivolta a chiunque. È una canzone passe-partout. Rabbia giovanile? A dire il vero, più vado avanti più mi ci identifico». Un brano così liberatorio da togliere per un momento il retrogusto amaro che certe persone e personaggi inevitabilmente ci lasciano (e continueranno a lasciarci). Dire ciò che pensiamo è un lusso che dovremmo concederci più spesso.

«You Could» è un pezzo che mi viene da definire nervoso, senz’altro tirato. Ai primi ascolti non ho colto assolutamente i riferimenti religiosi e mi è rimasta invece la frase: “You could try to believe in me the way I believe in you” come se fosse riferita al rapporto tra due persone in cui una crede e ha fiducia nell’altra ma non riceve lo stesso in cambio. Questo è il bello delle canzoni: che puoi anche interpretarle come ti arrivano e cucirtele addosso a seconda del vestito che ti serve in quel momento. Spiega Eddie: «È una bestemmia, senza offesa. Come dire: Dio non ci sei, quindi non rompere i coglioni. Però ci sono delle immagini carine come quella delle preghiere che sono le rate con cui noi paghiamo le nostre tombe (“We dig our little graves/ Day after day and pay them by installments as we pray…”). Oppure il gioco di parole con inchiodare, “lascia che sia io a inchiodare il mio mondo” (“Let me be the one to nail my world”) ci penso io alla mia esistenza ed i chiodi richiamano la crocifissione». Efficace anche l’immagine della vita come regalo indesiderato: “Dicono che la vita sia un dono/ ma chi l’ha chiesto?/ E ora che l’ho scartato posso rifiutarlo?” (“They told us “life is a gift”/ But whoever asked for it?/ And now that it’s unwrapped can I refuse?).

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«Morning Whispers» Dopo una serie di brani che ti tengono in tensione arriva il momento della ricreazione e del relax totale. Il momento di sognare e di lasciarsi trasportare dal romanticismo, dolce ma non melenso. Come in «So Cruel», la batteria è suonata da Zafret anziché da Vattovani e forse anche questo contribuisce a dare un ulteriore tocco retro. Durante un concerto potremmo immaginare il pubblico ballare un lento, abbracciarsi, baciarsi o alzare in alto gli accendini, non fosse che nel 2013 tutte queste azioni verranno irrimediabilmente sostituite da un’unica azione: fare delle foto o video con il proprio smartphone. Ma queste sono canzoni come una volta, allora per un attimo possiamo sognare che ci siano anche le persone di una volta. Conferma Eddie: «È un brano molto alla vecchia, romantico. Quando c’erano ancora i balli di scuola e si aspettava il lento: tempi che ho vissuto. In Etiopia e in Polonia c’erano tante feste private nelle case. Il pezzo che aspettavamo era “Carless Whisper” di George Michael. Forse non ci ho mai pensato ma ho messo “whisper” nel titolo per questo. Dovevi veramente approfittare di quattro minuti, e magari esitavi, esitavi e andavi lì quando il pezzo era finito! È un pezzo molto alla vecchia. Perché i lenti di oggi o sono deprimenti da tagliarsi le vene o sono cantati da una che urla. Non c’è più il ballabile. Il lento era veramente una cosa bella, ci scappava il primo bacio. Infatti sarebbe bello suonarlo e vedere gente che si bacia. “Sussurri mattutini”, c’era questa idea delle assi di luce. E c’è un’immagine che mi piace molto, sull’accecamento dell’amore, la pelle d’oca che diventa il Braille con cui leggi le tue emozioni e le emozioni dell’altro. Certe cose suonano meglio in inglese: “Blinded by love/ Stumbling hands that faltering read/ Goose pimples like words in Braille/ On a skin so pale” (“accecato dall’amore/ mani che inciampano leggono incerte/ la pelle d’oca come fossero parole in Braille/ su una pelle così chiara”)». Sul finale ci sono i fiati di Angelo Chiocca. «Inizialmente abbiamo registrato su tutto il brano tante parti di fiati e alla fine sono tornato a casa un po’ in paranoia perché mi sembrava troppo. Al che abbiamo tolto… troppo, ma va bene così». L’apertura nel ritornello è data semplicemente dalla acustica, non archi o altro. «La chitarra di Daniele fa delle parti che sono un gioiello. Oltre ad essere un bravissimo strumentista è proprio uno che dà del suo. Perché il mondo è pieno di strumentisti bravi. Però l’inedito è veramente la prova del 9 per un musicista perché lì devi dare del tuo». Se siete innamorati, dedicate questa canzone alla persona amata e farete un figurone. Però mettete giù per un attimo quello stupido, stupido smartphone.         

 

«Hard Headed Girl» è un pezzo alla Motown, c’è dentro un po’ di roba black, soul. «È un pezzo vecchio. Il 6363_462377390489279_100401625_ntesto è venuto dopo. È disegnato su Claudia. “Cocciutella”, come dice lei. Testarda. Ci sono immagini carine. Il pezzo sta in piedi con tre strumenti.Poi Zafret ha fatto una sovraincisione di tamburello. Alla fine senti i suoi passi mentre va a registrare il tamburello nell’altra stanza ed io ho registrato i rumori. Poi si sente l’ultimo colpo e lui che appoggia per terra il tamburello, e poi i passi che fa per tornare in sala, non avevo fatto stop (ma non apposta!) alla fine l’ho sentito dalle casse e gli ho detto che avevamo un finale fantastico. Così l’abbiamo lasciato. E la cosa pazzesca è che quando la porta si chiude, si chiude esattamente con la chiusura del basso. Quindi non è stato ritoccato. È proprio quello che è successo. Mi piacciono molto queste cose».     

 

«Stinky Boot» è il pezzo più tirato e “rock” dell’intero lavoro. «È venuto fuori in un periodo in cui ho dovuto chiudere una partita Iva perché mi stavano dietro con contributi non dati, non venivo pagato da enti statali, mi ritrovavo per il terzo anno a non poter pagare contributi e dovevo decidere di chiudere una partita Iva. Ed è l’unico testo mirato che abbia fatto proprio con l’idea di cosa parlare ed è un tributo al mio paese. Lo stivale è l’Italia. “Stivale puzzolente”, ma stinky significa anche un po’ marcio. C’è una frase scritta il primo maggio: “Today’s the first of May/ All the slaves came out to play/ From their mortgaged little holes” (“oggi è il primo maggio, tutti gli schiavi sono usciti dai loro piccoli buchi presi col mutuo”). E da lì ho scritto il testo in poco tempo. Abbiamo avuto grosse difficoltà con la ritmica perché quando l’ho registrato io da solo con l’elettrica e Fulvio ha programmato un suo ritmo non riuscivamo ad uscire dal pattern della strofa. E lì riascoltando i rough ho chiamato Marco e Fulvio per rivedere le batterie, è venuta fuori quella rullata un po’ reggae nella seconda strofa. L’assolo che senti alla fine è la traccia migliore di quattro take. Mi piace tantissimo».

 

«Sometimes Life…» è uno degli episodi più toccanti di “Empty Fills”, cantato in maniera davvero solenne ed1330864343_Wooden_Eddie impreziosito dall’organo hammond di Giovanni Vianelli. Sembra uno di quei momenti di verità in cui ti fermi a guardare tutta la tua vita e non ci trovi poi così tanto senso. Forse è uno dei brani più semplici, ma semplice non significa banale. «C’è un’immagine nel testo che è presa da un documentario in cui si dice che c’è una data di nascita e una data di morte e la vita in mezzo a queste date è solo un trattino (“A date of birth/ And a date of death/ The life in between/ Is just a little dash”). E questo mi è venuto dopo aver tradotto un documentario sulla pena di morte che segue la vita di due ragazzi uno di 16 e uno di 18 anni. Il documentario ricostruisce il caso ed intervista questi due ragazzi nel death row, in cella e li segue fino al giorno dell’esecuzione. Intervistano sia il parroco che di solito va a fare l’estrema unzione che è con loro e li accompagna fino alla lettiga su cui viene iniettato poi il mix letale. Intervistano le guardie che nel bene e nel male instaurano un rapporto con i condannati. Ed uno ad un certo punto dice che infondo la loro vita non è altro che un trattino sulla croce al cimitero. Questa cosa mi ha colpito tantissimo. L’unica cosa che hanno in comune tutte le tombe è una data di nascita, una data di morte e la vita è quel trattino. Secondo me c’è un’idea bellissima del bassista Seghene che nella strofa ad un certo punto fa delle note bloccate, ghost notes. Nel finale non c’è una sparata di voce bensì c’è una specie di pedale di voce che va giù un’ottava. Ed è l’unico brano che poi finisce in fade». La speranza è l’ultima a morire: che magra consolazione.        

 

«Your Love» La prima volta che ho sentito il riff che apre il pezzo, ho pensato ai Kinks di “You Really Got me”, non so perché ma questa cosa mi è rimasta. Ci sono poi delle robe un po’ funk ed il testo non sarebbe stato male in “BSSM” dei Red Hot Chili Peppers. Questo è forse l’episodio più disimpegnato ed ironico dell’album. Racconta Eddie: «I rumori che si sentono all’inizio: c’è il microfono aperto e sposto la scatoletta della cuffia. Ho una passione per queste cose. Mi ricordo quando ero piccolo ascoltavo la musica e sentivo sotto uno scricchiolio di sedia perché magari all’epoca non potevano isolarlo. Anche in “Wish you were here” dei Pink Floyd senti un colpo di tosse lontano e son cose per cui io impazzisco. Oppure quando senti il pedale del piano. E secondo me queste cose vanno mantenute perché stanno ad una canzone registrata come un’espressione sta ad una foto. Ci sono delle foto con dei dettagli che rendono particolare lo scatto. Togliere quei dettagli è proprio un crimine. Negli anni 80 hanno inventato le corde lisce, così non sentivi il rumore e per me è una delle più grandi cavolate fatte negli anni 80. Gli anni 80 sono stranissimi perché ci sono dei brani bellissimi rovinati completamente dall’avvento della tecnologia dell’epoca. I nuovi synth, le batterie elettroniche, le nuove tastiere… per me il fatto che un gruppo come i Queen non siano nella storia del rock come altri ma un pelo sotto, è proprio per il suono. Avevano uno dei più grandi cantanti della storia, con dei brani splendidi però suona troppo plastico, anni 80 e quello è il motivo per cui loro vengono sempre un pelo dopo nella storia del rock, perché i suoni non sono rock. Il riff iniziale è semplicissimo, sembra quasi un coretto da ubriachi. Registrato in elettrico non andava, non partiva. Eravamo alla fine della giornata di registrazione, depressi e a me è sembrato di sentire non so cosa, una frequenza, un disturbo che si è trasformato in note. Siamo usciti ed abbiamo fatto festa, è andato! Una gioia. Perché eravamo depressi, eravamo convinti che fosse forte ma non si riusciva a renderlo. Il testo è preso da appunti vecchi, infatti è uno dei pochi pezzi che parla di sesso. Abbastanza infantile. Ma neanche tanto sai… ci sono un po’ di ascolti funk nei testi “chiama tua madre e dille che farai tardi”. Molto funk. Però uno se ne libera. Daniele ha tirato fuori un assolo provando, divertendosi. È rimasta la prima perché ha un tiro… ci sono anche un po’ di coretti. Poi c’è la parte che cambia tonalità che è un po’ ‘cmon America, ma è una presa per il culo».          

 

267825_495679090490298_1308041448_n«Do You Know How I Feel?» Questo pezzo è bellissimo. Punto. Davvero commuovente, con un’anima spessa. Una confessione con il cuore in mano, il coraggio di mettersi a nudo con tutte le proprie debolezze e fragilità. Un momento lancinante di verità assoluta. Eddie: «Era già pronta così, infatti l’acustica che senti sotto la mia è quella del provino, non l’ho neanche ritoccata. Penso che questo ancor più degli altri sia tanto legnoso (wooden sound). La batteria è suonata da urlo ma da uno che non sa che verrà tenuta, quindi da svacco. Anche qui abbiamo parlato parecchio, io da subito ho detto che la batteria non andava toccata, perché ci sono delle piccole imprecisioni dal punto di vista del suono, c’erano tra l’altro due ambienti un po’ lontani però il modo in cui è suonata è talmente suo che anche se hanno provato poi a farne altre piste di batteria non c’era verso. C’è qualcosa nello svacco, nella prima che butti anche se il brano lo conosci però sei lì proprio come lo sfuocato in certe foto che uno se vuole essere pignolo dice “sì ma non è a fuoco” ed è quello il bello. È lo stesso discorso dei passi che vengono registrati. E sono contento anche della scelta di non fare cori. C’è solo un contro-coro nel secondo ritornello. E sono contento anche dell’e-bow. È un effetto ottenuto appoggiando questo oggetto che fa da archetto, come se la nota risuonasse sempre. È come se avessi un archetto che continua a far risuonare la corda». Il momento più difficile di ogni crisi è l’ammissione della stessa: «Praticamente è una versione di “So cruel” maturo. “So cruel”: crisi per colpa di lei. Cresci, e la crisi è colpa tua».

 
«Madhouse» Una canzone che prende spunto dal cinema più che dalla musica e che rappresenta per Eddie «un personale viaggio emotivo e visivo fuori da questo manicomio che il mondo è ormai diventato».

«Per evitare la doppia voce, troppi effetti, troppe cose dentro, abbiam provato ad usare un effetto come un arrangiamento. Infatti nel ritornello quando canto senti che c’è un gran delay. La voce che si ripete è solo nel ritornello. Quello fa parte dell’arrangiamento, non è più un effetto. Secondo me è un brano che ad ascoltarlo più volte ti entra. Qua, come in “Do you know…” c’è il motivo reale per cui si chiama “Empty Fills”: c’è un blocco di batteria che è vuoto, non c’è la rullata né niente».    

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«Get The Boys Back Home» Brano struggente particolarmente adatto per chiudere ufficialmente l’album (anche se ci sarà poi la traccia nascosta “She” dal vivo alle In Orbita Sessions su Radio Capodistria). C’è l’organo di Vianelli, gli archi, l’e-bow. «Il testo nasce da un documentario che ho visto, mi ha colpito scoprire che l’età media di chi combatteva la guerra in trincea era di 15 anni. Mi paralizza l’idea del terrore, non tanto del dolore fisico. L’idea del terrore, di sapere cosa ti aspetta mi ha sempre colpito molto più della morte stessa». Spesso i libri di storia riducono tutto a dei numeri, si parla di guerre lampo perché ci sono stati solo 1500 morti o solo tot caduti. Se si comincia a pensare ad ogni caduto come ad una persona con la rete dei suoi affetti lontani, diventa molto più pesante da concepire. «Nella morte mi colpisce l’idea del dolore che uno lascia dietro, non è tanto uno che muore, quello che è impressionante è il dolore che lascia. Mi colpiva molto l’idea dei ragazzini mandati in guerra. L’idea del fatto che ogni individuo è un reticolo di affetti singolo è una cosa che mi paralizza. È una cosa per cui io mi accopperei. Quando l’individuo non viene considerato come reticolo di affetti. “Riportate i ragazzi a casa dalle persone amate”. “Lonely is not alone”: essere solitari non vuol dire essere soli. Per cui immagini quante persone pensano con terrore alla persona partita in guerra. O quando vedi questi ostaggi presi, al di là del panico che possono provare, pensare al panico e al terrore di chi è a casa. Centis che è venuto su mentre riascoltavamo la registrazione della voce ha detto: “cavolo questo pezzo mi sa di guerra in un senso strano”. Altre persone l’hanno sentito e trovato commuovente, poi c’è la sviolinata finale. Stefano Medioli ha fatto un lavoro bellissimo. Classico ma l’adoro per questo». 

Elisa Russo Aprile 2013
Le due foto con sfondo bianco sono di Daniele Braida;
tutte le altre di J.Berry

 

 

 

 

 

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