Esce in questi giorni sulle piattaforme digitali l’album di Eddie Cat, «Empty Fills» (si può già ascoltare in streaming su ReverbNation e sulla pagina Facebook di Eddie Cat http://www.reverbnation.com/eddiecat?page_view_source=facebook_app). Il cd nella versione “fisica” sarà disponibile dal 15 marzo. L’album sarà presentato ufficialmente dal vivo l’11 aprile al Tetris di Trieste ed il 18 aprile al Contestaccio di Roma.
Edward Carl Catalini, in arte Eddie Cat, è un cantautore anglo-italiano che vive a Trieste da più di dieci anni. «Ho un amore folle per Trieste. È il posto in cui ho vissuto più a lungo e dove ho messo su casa», dice. Anche l’album è nato ed è stato registrato in città, alla Casa della Musica (Urban Recording Studios), co-prodotto dall’autore assieme al produttore e sound engineer triestino Fulvio Zafret: «Con Zafret è nato un rapporto molto bello. La possibilità di usare quello studio ce l’ha data Gabriele Centis: anche lui ha creduto molto in me», commenta Eddie. Il mastering è stato curato da Nick Watson a Londra. La band, su disco, include: il chitarrista di Parma Daniele “Big Bear” Morelli, i triestini Marco Seghene al basso e Marco Vattovani alla batteria.
Le influenze musicali vanno dal rock e pop-folk degli anni 60 e 70, che a casa passavano sul giradischi della mamma (Beatles, Rolling Stones, Buddy Holly, Joni Mitchell, Tim Buckley) alla musica classica di Mozart e il soul di Nina Simone. Ma anche Prince, Paul Weller o i Led Zeppelin… Degli anni 90 ci sono Jeff Buckley (o meglio, Gary Lucas), Afghan Whigs, Pearl Jam, Alice in Chains (ed in generale il grunge). «Ci sono tante influenze, ma appunto ce ne sono talmente tante che non puoi ricondurle ad una».
Com’è nato “Empty Fills”?
«Con l’idea di fare un album come quelli di una volta. Sono appassionatissimo di musica e ne ho ascoltata tanta. Quello che ultimamente mi delude un po’ rispetto ai tempi andati è che oggi in un disco spesso ci sono quei 2-3 pezzi scelti come singoli promozionali ed il resto sono riempitivi. Negli album che ascoltavo da piccolo e che mi piacevano tanto, invece, ogni pezzo era un mondo a sé. Ed è quello che ho cercato di fare. Per l’80-90% del disco, a parte un paio di sovraincisioni (degli archi su “Get the Boys Back Home” e sul finale di “Loneliness”, una particina di fiati alla fine di “Morning Whispers”), c’è poco altro, quindi i brani non sono riconducibili ad un genere preciso per come sono arrangiati. Abbiamo ragionato come dei pazzi anche sull’ordine dei brani, e credo che funzioni. È un disco vario, di canzoni diverse, ci sono pezzi veloci, lenti, le tonalità cambiano… Siamo stati attentissimi al suono. Devi capire se un pezzo sta in piedi già quando nasce chitarra e voce, se non sta in piedi non ha senso forzarlo con trucchi di arrangiamento e suono».
E i testi?
«Li scrivo partendo da parole che vengono fuori improvvisando, in “finto” inglese. Ci sono delle parole che stanno così bene dentro che rimarranno, lo senti subito. Hanno un significato per te, non tanto profondo quanto di immagine. Sono legato di più al suono di una parola, che al suo significato. Parto da belle immagini che prima di tutto suonino bene, quelle che ti fanno venire la pelle d’oca su cui leggere le emozioni dell’amore, come fosse braille. Prendo spunto anche dal cinema per un mio viaggio emotivo e visivo fuori da questo manicomio che il mondo è ormai diventato».
In Italia di dischi che suonano così bene ne escono pochi…
«Qui è questione, più che del mio merito, di demerito degli altri. Se fossimo negli anni 60-70 sarebbe tutt’altro discorso, al di là dei brani parlo proprio della capacità di scrivere canzoni. Oggi ci sono anche cose molto belle in giro ma le devi cercare. Non si ascolta neanche più la musica come una volta. Molti dischi di adesso suonano di plastica, mancano le dinamiche, non ci sono più gli spazi vuoti, non c’è la scarnezza. Si parla tanto di rock indipendente e alternativo, ma le canzoni che ancora oggi si ascoltano più volentieri sono quelle di una volta».
Che cosa c’è di Trieste in “Empty Fills”?
«Ci sono io! La maggior parte dei pezzi è stata scritta e registrata a Trieste, da un triestino adottivo. Questa città mi piace moltissimo, è un’isola sospesa, un po’ fuori dal tempo, con una calma apparente. È un mondo a parte, a tratti ha uno squallore decadente che non è però trascuratezza. Tutti quelli che la visitano rimangono affascinati ma non sanno bene da cosa, è come il carisma: lo percepisci ma non sai definirlo».
Elisa Russo, Il Piccolo 23 Febbraio 2013
(Foto su Il Piccolo: Daniele Braida)