ENRICO GOTTARDIS “Tasche piene d’acqua”

«Un bravo musicista ha amichevolmente definito la mia proposta “mental rock”: mi ha fatto sorridere e mi ha nobilitato. Amo la musica fatta con il cuore, con la testa e con le mani. Con un background prettamente rock, credo che nella mia musica si possa rinvenire del blues, del progressive (più romantico che aspro), qualche accenno jazz, e più di qualche elemento acustico. Sono troppe le influenze, ma Jeff Beck per me continua ad essere uno spiazzante genio assoluto». Enrico Gottardis si descrive come un padre e un marito di 52 anni, un funzionario pubblico orgoglioso del suo lavoro, un triestino che ama i suoi amici, affezionato ai suoi animali, spesso travolto da troppi impegni e interessi. Tra i passatempi non figura però la musica che «non si fa per hobby: è una passione viscerale, parte integrante e imprescindibile della vita» che lo ha portato finora a incidere ben otto album. Inizia a suonare la chitarra a 16 anni folgorato dall’hard rock, da giovane è stato seguito da Giuseppe Farace, che ha poi prodotto tutti i suoi lavori «e dal prof. Lucio Zanella – aggiunge – che sempre ringrazio non solo per quel che mi ha insegnato in quegli anni, ma soprattutto per il modo in cui l’ha fatto». “Tasche piene d’acqua” è il suo nuovo cd, contiene 14 brani registrati da Farace, che ha curato anche il mixaggio e la produzione, oltre all’arrangiamento di alcune parti orchestrali. «I miei precedenti sette cd contengono solo tracce strumentali; stavolta la voce di Dorotea Gottardis mi ha indotto a registrare tre canzoni con liriche da lei composte. Un brano del cd lo devo al bassista William Millo. “Song for D” è una promessa che ho dedicato ma che non sono riuscito a far ascoltare, almeno credo. L’artwork di copertina lo devo alla creatività di Sergio Pelaschiar. Tutti i pezzi li ho composti utilizzando chitarre elettriche Fender e Gibson e acustiche Takamine ed Epiphone. Come amplificatore utilizzo un valvolare Fender, mentre per l’effettistica non uso niente di particolare. Quando un effetto suona bene, seppur con parsimonia, penso a come utilizzarlo nell’economia di una traccia, altrimenti lo rimetto nella sua scatola pentendomi d’averlo acquistato. Tuttavia difficilmente lo rivenderò». Il lavoro prende il titolo «dal libro che mia madre mi disse avrebbe voluto scrivere; non è mai stato scritto, ma il ricordo di quel titolo continua ad accompagnarmi nella vita». “Città di vento” si suppone dedicata alla nostra città: «Strade e vicoli bui percorsi dal vento, vie alberate che scorrono parallele alla fretta della gente. Sì, dev’essere proprio Trieste, forse il Viale XX Settembre o la nostra via Rossetti sferzata dalla bora. Lo devo chiedere a Dorotea, che ne ha scritto il testo! Siccome mi è stato detto che nei miei brani spesso convivono più generi musicali, Trieste vi figura forse come proiezione sul piano culturale, se è vero che questa nostra stupefacente città è stata e ancora sarà un formidabile crocevia di diverse genti e culture». «Non cerchiamo di piegar l’acciaio a mani nude – conclude Gottardis sul futuro della musica dal vivo -. Il problema esiste, non sottovalutiamolo. Ad un concerto come quello degli Iron Maiden in piazza Unità io quest’anno non andrei e farei di tutto affinché nemmeno ci vada mia figlia con il suo fidanzato. Se dovessimo forzare potremmo trovarci a veder organizzati eventi che, all’ultimo momento, potrebbero saltare o andar deserti. Si ricomincerà a suonare in pubblico, la musica lo chiede, ma non ora, non ancora».

 

Elisa Russo, Il Piccolo 21 Luglio 2020


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