«È la prima volta che vengo a suonare in provincia di Gorizia, sarò con la band al completo. Conosco la zona, da piccolo l’ho frequentata. E poi mio nonno materno era di Rovigno, ho 25% di sangue istriano»: il rapper milanese Ernia è in concerto domenica alle 21.30 in Piazza della Repubblica a Monfalcone, per Generation Young Festival; aprono la serata Yane e Resem Brady. Ernia (Matteo Professione) è tra i nomi più interessanti, oltre che di successo, del nuovo rap italiano. La consacrazione arriva con il terzo album “Gemelli” che contiene il tormentone “Superclassico”; il quarto “Io non ho paura” (cita il romanzo di Ammaniti), uscito a novembre, è una conferma di talento.
“Io non ho paura”: è un modo per darsi coraggio? Anche perché poi c’è la canzone “Tutti hanno paura”, che dà il titolo al tour.
«Esatto. Dopo il mio disco di maggior successo “Gemelli” è subentrato un fattore di pressione, tutti si aspettavano grandi cose. Quindi sì, ho avuto paura. Allora ho allargato questa visione alla mia sfera umana e a ciò che temevo per il futuro».
Avete registrato anche negli Usa, lo si vede nel documentario che racconta l’album. Bella avventura?
«I viaggi se non sono avventurosi non ci piacciono. Non sono uno che riesce a stare fermo sulla spiaggia ad aspettare il nulla. Sono sempre in tour, sia quando lavoro che quando sono in vacanza».
Si parla di dissing e sembra che vi odiate, in realtà la scena hip hop è molto collaborativa no?
«Abbiamo sviluppato la nostra musica da ragazzini nei box e nelle cantine, negli studietti improvvisati. Passava l’amico per caso e gli dicevi “adesso questo fallo te”. Oggi si continua, con amicizie frutto di anni».
Tra gli ospiti del suo ultimo album: Fabri Fibra, Salmo, Mengoni, Rkomi, Gué, Bresh, Sattei…. Dal rap l’uso dei featuring si sta diffondendo al pop: che ne pensa?
«Si sta allargando a tutti i generi perché oggi l’attenzione generale è veramente bassa. Una sequenza di canzoni di un solo artista, a tante persone stufa, ed è lì che ci piazzi l’ospite».
Una società ossessionata dai numeri: come la vive?
«È un incubo. Anche il pubblico è “bastardo”: se non fai determinati numeri te lo ricorda. Perché loro subiscono quella cosa per primi. Un ragazzetto adesso vive col numero di like, follower, interazioni… e se non ce li hai, hai perso, devi essere perfetto, sempre “instagrammabile”. Ma non è così. Siamo le mascotte di questa trappola».
Dice: “Vengo da una famiglia normale, la mia vita non ha nulla di straordinario”. È una forma di umiltà?
«Per ognuno di noi la propria vita è normale. È anche un mio modo per toccare ferro, “non c’è niente di speciale, guardate da un’altra parte”, per non avere l’attenzione addosso».
Sembra un tipo puntuale, educato, implacabile, preciso. Perde mai le staffe?
«Puntuale di sicuro. Provo a essere educato, retto. Posso perderle (qua viene fuori la mia parte istriana), diciamo che mi mordo la lingua, corro fuori e urlo al cielo».
«A scuola mi chiedevo “perché essere bravo?” / se la diagnosi era quella di un destino precario», recita “Tutti hanno paura” (feat Marco Mengoni).
«I giovani non riescono ad avere una proiezione di sé nel futuro. Da quando ho 15 anni sento parlare di crisi, precarietà, del mondo del lavoro che cambia e non andremo in pensione. Come posso credere nel futuro? Si vive alla giornata, disillusi».
La musica che può fare?
«Dare messaggi che vanno presi singolarmente, una sorta di morale alla fine del racconto che può essere comprensibile».
Elisa Russo, Il Piccolo 15 agosto 2023
