La finale della sesta edizione dell’Opening band Live Music si terrà questa sera in piazza Giuseppe Verdi a Trieste (dalle 20, con le tre band finaliste: Eleor & Andrej, This Melting Romance e C∩M) e, oltre all’esibizione del gruppo vincitore dell’Opening Band 2011 Coloured Sweat, vedrà come ospiti The Mothership. Si tratta di una superband triestina, formata da musicisti provenienti dai Trabant (Michele Zazzara e Giovanni de Flego), Fs’S (Pierpaolo Poldo de Flego) Galaxy666, e Tetris (Tomaso Donini). Mescolano house, techno, electro funk con una predilezione per i suoni più cosmici e fantascientifici.
The Mothership significa casa, nave madre appunto. Dalle radici della terra, dalle ceneri generate dall’impatto apocalittico del mondo contemporaneo su tutto ciò che si voglia chiamare cultura, la nave madre sorge come un’araba fenice, avvolge tutto ciò che le si presenta di fronte a colpi di beat pesanti, tribali, alienanti, suoni di synth ultraterreni, vibrazioni basse e profonde.
Spiega Giovanni de Flego: «Galaxy 666 sono dei party che facciamo con l’idea di educare le persone a chiedere di più in modo che poi non si accontentino delle cazzate che la gente spara, che non dico quali sono ma penso che possiamo tutti immaginare: ci sono delle cose molto belle in questa città e ci sono delle offerte “culturali” che culturali non sono per niente e sono fatte solo per vendere i drink. Con Galaxy facciamo queste feste che sono dei dj set, però c’è un allestimento, sopra i dj set ci suoniamo, vengono ospiti, è una cosa molto bella, ne stiamo facendo anche alcuni all’Ausonia sempre insieme a Tetris. Mothership si muove in questa direzione solo che è più live. Siamo noi quattro sul palco però c’è una collaborazione molto stretta di altre persone del Tetris: Federico Chersin, Marco Licitra e Alessandro Pollicardi. C’è dietro una matrice profondamente tetrissiana. Questo è dovuto al fatto che Tetris la vede come noi, da tanti punti di vista e noi siamo comunque parte di un meccanismo che è Tetris. Anche lì c’è la voglia di fare le robe non per fare i soldi ma per fare cultura. Per educare le persone a chiedere di più, questa è la cosa base che ci deve essere in questo momento, se no finiremmo in un mondo di scemi, e io un mondo di scemi non lo voglio».
Da quale spinta nasce The Mothership?
«Per sfidare noi stessi e per dare qualcosa ai giovani della città e cercare di portare anche il nostro vissuto, un’esperienza quasi tutta sul campo che può essere utile per i ragazzi. Dimostrare che si può, anche con tempi ristretti, ottenere risultati. Perché molto spesso quando si è giovani si pensa che il tempo sia infinito. E invece no. Guardando alle spalle: ci siamo grattati troppo quando eravamo più giovani, questa è una mia opinione. Mi sono grattato troppo quando ero ragazzino, quando avevo l’età dei ragazzi che concorrono all’Opening. Bisogna fare di più. Bisogna fare sempre di più. Io ho fatto troppo poco. L’idea quindi è dimostrare che tu puoi portare anche in due settimane, se sai come farlo, se ti sbatti veramente, uno show e renderlo interessante, coinvolgente e propositivo. Un altro perché che sta dietro al progetto The Mothership è la voglia di fare qualcosa che non si era visto. È in linea con qualcosa che avevamo fatto con i Trabant con la fondazione Pomodoro, la serata si chiamava Trabant Disco Spaceship (Sonoinlista Vitaminic, Pronti al Peggio) in cui suonavamo dei pezzi nostri e non, solo in versione elettronica, conciati come dei pazzi, era una cosa un po’ fantascientifica. The Mothership è in questa linea qui, soltanto che è più completo musicalmente ed è più suonato, c’è meno overdub, meno sovraregistrazioni ed è molto più live. L’idea è quella di portar qualcosa che sia diverso. In questi giorni ci stiamo anche molto confrontando, in sala prove, se auto censurare o meno delle possibili iniziative all’interno della creazione dei brani, cioè se tarparsi le ali e cercare di fare delle cose più possibile pop o invece muoversi su territori più di confine. Ovviamente l’idea sta nel mezzo però bisogna educare le persone a venire rispettate come audience, come pubblico. Mi spiego meglio: tu non rispetti le persone usando una prassi che è molto diffusa in questo momento che è quella di abbassare necessariamente la tua offerta in modo che essa sia capita dopo tre secondi da chiunque perché questa cosa qua equivale a nostro parere a considerare le persone sceme. Cioè a considerare le persone delle entità non capaci di astrarre e di chiedere di più a se stessi e a chi sta facendo un’offerta culturale di qualsivoglia tipo. Questo è un aspetto molto importante, su cui stiamo lavorando molto. L’idea è quella di uno spettacolo che è intelligibile, originale, coinvolgente ma contemporaneamente non è una cosa ultrapop, non è una cosa che super strizza l’occhio a tutte le cose che stanno andando in giro adesso o quelli che sono gli standard contemporanei, l’idea è quella di fare una cosa che abbia un respiro differente perché soprattutto i ragazzi devono imparare che la gente non ti ascolta perché tu gli dai esattamente quello che loro vogliono, tu devi cercare di settare quello che gli può interessare. Naturalmente è una visione che è molto lontana da quello che è il mercato in generale in questo momento. Per questo è un progetto che è molto libero e di cui siamo veramente molto felici».
Che concerto proponete in chiusura dell’Opening?
«Il concerto di sabato prende la matrice Disco Spaceship, Galaxy e la implementa. Vale a dire è una sorta di live set di elettronica in cui ci sono delle basi che vanno, ci sono dei sintetizzatori, delle drum machine, iPad, Nintendo DS, generatori di suono vari con una sezione ritmica dal vivo ci sarà Michele al basso ed io suonerò la batteria in molti casi, voce… facciamo delle cose diverse, si va dalle cose che ci convincono di più ma sono – guarda caso – anche quelle più di confine, ci sono delle session molto percussive, molto tribali, con un sound molto techno e poi ci sono anche delle cover, dovremmo fare anche un paio di pezzi dei Trabant, li rifacciamo in una maniera molto diversa, sono presi alla stregua delle cover di altri artisti, c’è un approccio simile a quello che può essere “facciamo una cover di Bob Dylan” per esempio, nel senso i pezzi dei Trabant li abbiamo affrontati con lo stesso spirito, da esterni. Ci sono quindi anche dei pezzi cantati ed essi si muovono magari in dei territori vagamente più house e meno techno, vale a dire suono vagamente più morbido, di un paio di bpm più rilassati, un sound vagamente più avvolgente ma di base è un concerto abbastanza mordace, andiamo abbastanza con gli artigli proprio perché ci piaceva anche lavorare sulla contrapposizione tra quella che è la location e quella che è l’offerta musicale che andiamo a fare quindi abbiamo da una parte il Tergesteo appena restaurato, alle spalle il Palazzo della Borsa, di fronte c’è questa vista interessante perché è laterale, scorciata di Piazza Unità, il Teatro Verdi (sulla destra guardando dallo stage). Quindi c’era l’idea di portare qualcosa che veramente sia diverso, sia dirompente, sia coraggioso. Portare del coraggio: questa è un’altra parola d’ordine. Ci sarà anche un’idea di coinvolgimento del pubblico, il tentativo di unire in qualcosa di collettivo.
Il 19 c’è la serata Galaxy all’Ausonia, iniziamo ad orario aperitivo e ci sono degli ospiti che vengono a mettere musica. C’è la voglia di fare sempre qualcosa di diverso e di coinvolgente, qualcosa che non ha la puzza sotto il naso e soprattutto non è collegato a nessuna scena. Che è un altro dei cancri della musica italiana, e della cultura italiana, oltre a un audience sempre più che gli devi dare la pappa in bocca perché sono abituati ad andare su You Tube, su Facebook, sono i loro amici che gli fanno la cultura, sono i link che fanno la cultura quando invece la cultura non è fatta di link, non è fatta di amici che condividono cose. Tu hai degli amici e con gli amici esci fuori a bere la sera e parli delle cose però il meccanismo dei link è una cazzata senza confini.
Galaxy è fuori dalle scene e questo è molto importante. Non è scena techno, non è scena indie, non è scena house, non è scena hardcore perché sono tutte delle scene che personalmente mi fanno cagare. Tutte. Perché sono una maniera di incamerare la testa della gente ed è sbagliatissimo. Perché le persone devono essere libere. Libere di ascoltare una cosa un giorno ed ascoltarne una completamente diversa un altro giorno, liberi di mangiare quel che vogliono senza doversi tatuare delle cose».
Farete altri concerti?
Risponde Michele Zazzara:
«Niente al momento è fissato. Molto probabilmente entro fine estate ci esibiremo ancora in città, ma essendo uno spettacolo creato ad hoc per questa manifestazione, non abbiamo ancora creato nulla a lungo termine.
L’Opening è un’occasione molto interessante per le band emergenti, hanno la possibilità di esibirsi, di incontrarsi, ma soprattutto di confrontarsi al di là del concerto in sé. Se vogliamo parlare più strettamente del concorso invece, la peculiarità sta sicuramente nel fatto che il premio è una serie di lezioni per il perfezionamento musicale. Insomma, già da questo si capisce che è una realtà ben improntata allo sviluppo della musica, fondamentale per formare nuove leve artistiche e cittadini».
Aggiunge Giovanni:
«Mi unisco all’entusiasmo per questa implementazione del premio dei vincitori, il fatto di inserire la possibilità di arricchire il proprio bagaglio tecnico, formativo sullo strumento. È una cosa molto bella perché è incentrata sull’educazione.
Il confronto, soprattutto quando si è così giovani, emergenti va vissuto nella maniera giusta ossia come un’occasione di arricchimento al di fuori di chi vince chi perde etc perché in realtà tutti quelli che partecipano hanno già vinto perché hanno deciso di voler fare un lavoro serio, di volersi mostrare fuori nei confronti di persone che non li conoscono e hanno deciso di mettersi a confronto con ragazzi come loro che fanno magari generi diversi ma fanno lo stesso percorso, cioè cercano di creare qualcosa, proporre della musica originale, proporre delle loro idee.
I ragazzi devono capire il più presto possibile che devono proporre qualcosa di nuovo. Quello che mi spaventa quando sento certe band emergenti che molto spesso sono ben preparate tecnicamente è il fatto che propongano ancora delle cose che è un forte riferimento degli stereotipi della musica che ascoltano e spesso la musica che ascoltano è abbastanza vecchia. Nulla in contrario al fatto di ascoltare la musica di alcuni decenni fa, perché personalmente lo faccio anch’io e sono pochi i dischi contemporanei che in questo momento tutti all’interno di Trabant, Galaxy, Mothership stanno ascoltando però la proposta musicale deve essere un’elaborazione di questi stilemi. Qui vedo ancora, vuoi per la giovane età, vuoi per paura, vuoi per la voglia di appartenere a qualche scena, vedo ancora poca progettazione, poco sviluppo in questa direzione. Ma forse sono solo io che sono particolarmente esigente. Mi fa sempre strano che dei ragazzi che hanno 18 anni alcune volte sembrano dei diciottenni dell’83. L’importante è cercare di educare sempre alla novità, al chiedere di più da se stessi e dagli altri».
Il futuro dei Trabant?
Michele:
«I Trabant sono in pausa per diversi motivi, erano più di dieci anni che ci dedicavamo a quel progetto e avevamo bisogno di fermarci per tirare un po’ le somme, per fissare nuovi traguardi, capire meglio cosa vibrava nelle nostre corde in questo momento. Ci siamo dedicati ad altro per ricaricare le batterie, per esplorare altre forme di comunicazione. Il futuro della band non è mai stato certo e mai lo sarà. Chi vivrà vedrà».
Giovanni:
«Devi rispettare il tuo lavoro passato e contemporaneamente, alla luce di esso, lavorare per il futuro. Questi due ingredienti fanno sì che tu consideri se continuare un progetto che già esisteva o se farne un altro. In questo momento ci stiamo ancora interrogando su questo, oltre al fatto che dobbiamo interrogarci sul problema delle nostre vite che sono molto complicate, sempre più difficili, dobbiamo sempre lavorare tanto, tutti quelli della formazione originale. Tutti quelli che hanno fatto parte dei Trabant si fanno un mazzo così tutti i giorni della settimana, compresi i weekend per cercare di sopravvivere, di sbarcare il lunario, facendo le cose che gli piacciono e non facendo le cose che non amano. Questo significa tanta fatica ma significa andare a letto soddisfatti anche se poveri piuttosto che un po’ più ricchi ma con la sensazione di avere perso tempo e credo che questo sia il più grande insegnamento che ti dà la musica, io noto che tutti i musicisti che conosco sono della gente che ragiona in questa maniera qui e di conseguenza sono anche le persone più giovani che conosco anche se giovani non sono a volte».
Elisa Russo, Il Piccolo 14 Luglio 2012
(Foto di Sara Mansutti)