«Se vi sembriamo strani, è perché sappiamo qualcosa che voi avete dimenticato»: potrebbe averlo proclamato ovunque e in qualsiasi epoca un adolescente rivolto a un adulto. Ma qui siamo a Pordenone, nel 1981, nel pieno del Great Complotto, uno dei fenomeni più singolari della storia musicale italiana, un movimento situazionista che innescò la miccia del punk nel nostro paese. Non è un libro sul Great Complotto, ma un romanzo immaginato con quello sfondo “Il mondo finirà di notte” di Umberto Sebastiano (Nutrimenti, pagg 288, 17 euro), dove la storia d’invenzione, incentrata soprattutto sull’amore tragico tra i giovani Alex e Kyara, si posa su fondamenta reali, fatte di luoghi, musica, personaggi. Elementi che Sebastiano ha sedimentato nei suoi ricordi: nato a Sacile, a tre anni si trasferisce a Pordenone dove rimane fino ai 19, per vivere poi i decenni successivi a Milano e Roma (scrivendo per L’Unità, Duel, Nocturno, L’Espresso, programmi tv Rai e Mediaset).
«Con il luogo in cui hai passato l’adolescenza – riflette l’autore – devi fare i conti tutta la vita. Pordenone è una parte di me, nel bene e nel male, leggendo il libro si capisce quanto amore/ odio ci sia per la città e per il contesto ambientale e psicologico, c’è questa idea di città matrigna/ madre anaffettiva. È un’opera di finzione però è chiaro che ho usato la mia biografia, le mie esperienze per definire il luogo e il territorio non solo geografico ma anche psicologico».
Cos’è stato per lei il Great Complotto?
«Avevamo 16 anni, formavamo di continuo dei gruppi (io suonavo con i Rendez-vous Ravage, noti per il brano “Un inverno a Pordenone” che sarebbe stato poi citato da Toffolo in un pezzo dei Tarm, e poi a Milano con i Ribelli Cromati, che nel libro diventano la band del protagonista). Tutto è partito da dei pazzi illuminati come Ado che andavano a Londra e al ritorno raggruppavano ragazzini e li convincevano di essere delle rockstar al centro dell’universo. Arrivavano le troupe televisive a documentare il fenomeno. Il motto “Pordenone può essere Londra ma Londra non sarà mai Pordenone” ha determinato i nostri comportamenti».
Nel libro che ruolo ha?
«C’è una parte in superficie che attinge al Great Complotto e poi c’è una parte in ombra, nascosta, maledetta dove si manifesta il male».
Nella trama ci sono degli episodi molto crudi, violenti. Tutta invenzione?
«La violenza c’era, quando c’è un lato così luminoso ce n’è anche uno oscuro per forza, se io rimanevo turbato dalla visione di “Arancia Meccanica”, altri si vestivano da drughi. Ma nel romanzo c’è la finzione, non ho raccontato nulla che sia accaduto in quei termini».
Il femminismo è un altro tema che emerge.
«Più in generale una riflessione sul confronto tra maschile e femminile. Quella dell’epoca era una società molto maschilista, lo è tutt’ora, il lavoro da fare sarebbe tanto e profondo».
Perché ha scelto il presente come tempo narrativo?
«È fondamentale, l’ho fatto istintivamente ma ho capito che quando parli del primo amore, dell’adolescenza, sei in quel momento, non può essere una cosa nostalgica in cui un cinquantenne guarda il passato. Molte emozioni, sensazioni, anche ferite mi sono rimaste dentro perché l’adolescenza è il periodo in cui i ricordi si imprimono con più forza, è comune per gli adulti ricordarla in maniera più netta. E poi gli adolescenti hanno le risposte, sono più vicini alla verità, al senso della vita, crescendo ci si allontana, ci si costruisce una gabbia in cui vivere meglio possibile».
Elisa Russo, Il Piccolo 14 Giugno 2022
