Intervista a Doro Gjat, al Lunatico Festival il 17.08.18

In arte Doro Gjat, perché negli anni Novanta Luca Dorotea ascoltava rap nella sua Tolmezzo ed erano “quattro gatti” a farlo: da lì nacquero i “gatti della Carnia” (Carnicats) e il suo soprannome (gjat, gatto). Dopo l’esperienza con il gruppo, Doro ha intrapreso la strada solista mantenendo la passione per l’hip hop, contaminandolo però con il cantautorato. Dopo il debutto del 2015 «Vai Fradi», finito anche in un servizio di Studio Aperto su Italia 1, suonato in giro per l’Italia e sul palco del Primo Maggio a Roma, nei mesi scorsi è uscito il secondo «Orizzonti Verticali» (ReddArmy). Lo presenta oggi alle 21 al Lunatico Festival nel Parco di San Giovanni con la sua band (Luca Monreale alla chitarra, synth e voce, Giacomo Santini chitarra e percussioni, Mirko Caso basso, Elvis Fiore batteria), l’ingresso è libero, il dj set di Kwalaman.

«A livello creativo è stato un momento molto bello per me, mi sentivo davvero sicuro di quello che stavo facendo – dice Doro Gjat –. Ci ho messo tutto me stesso. Ho usato questa metafora degli orizzonti verticali (che ritorna in ogni brano, come in un concept) per raccontare la mia vita all’ombra degli orizzonti verticali e la rincorsa dei sogni al di là di essi».

Ha un forte legame con la sua terra?

«Nel rap uno dei temi portanti è il “represent”, rappresentare qualcosa. Non voglio essere frainteso: il fatto che ci sia così tanto il mio territorio, il mio background ha portato qualcuno a pensare che i miei dischi parlassero di quanto è bello essere friulani, bere vino e mangiare frico! Non è così. Quanto è bello essere sé stessi, non avere paura, essere consci dei propri limiti e delle proprie doti: questo il messaggio».

Un album solare, che sprigiona energia buona.

«La musica mi fa sorridere e voglio faccia questo effetto a chi l’ascolta. A volte è un sorriso malinconico. Anche dal vivo alterno momenti più intimi, riflessivi, personali a momenti più scanzonati in cui è giusto ci si diverta. Il sole e il cielo sono temi ricorrenti dei singoli “Blu” e “Icaro”, intendo: cerchiamo di elevarci, staccarci da terra».

Possiamo chiamarlo cantautorap?

«Ho un’attenzione quasi maniacale per la parola. Ho cercato di sviluppare qualcosa che sia mio, non tento di emulare modelli lontani da me. Ho sempre odiato lo scimmiottare il rap del ghetto americano di chi vive in un contesto totalmente diverso. Questa ricerca per trovare una strada che sia fedele a ciò che veramente mi piace – la musica hip hop – ma che al tempo stesso sia italiana, che faccia parte della nostra cultura, senza essere una mera emulazione quasi grottesca di stilemi che non ci appartengono, mi ha portato a questo mix di generi».

L’anno scorso ha duettato con Joss Stone ai Laghi di Fusine. C’è sempre più interesse per i concerti in luoghi inusuali?

«Si offre al pubblico qualcosa in più che spinge ad andare al live. È una cosa che adoro fare, quel set acustico usato con la Stone sta diventando per me un escamotage per portare la mia musica in situazioni anomale. Di recente sono saltati due concerti, uno per il maltempo e uno per problemi tecnici e per rimediare ci siamo messi in un cortile a Tolmezzo e abbiamo suonato in diretta video sui social network».

Grandi numeri online. Il suo seguito è cresciuto?

«Ho ampliato il mio pubblico ai concerti, al di là dei click che sono soprattutto dei più giovani. Ho coinvolto, in maniera trasversale, fasce d’età più mature. Non ho i denti d’oro, le collane e non rappo con l’autotune, quindi il target è diverso».

 

Elisa Russo, Il Piccolo 17 Agosto 2018

Doro Gjat

Articoli consigliati