«Nato nei tempi d’oro, Sanremo è passato per Nilla Pizzi, Orietta Berti, Adriano Celentano, Lucio Battisti, ma poi il rebelot, la confusione fino ad arrivare ad oggi. Ho presentato diverse canzoni a Sanremo, molte sono diventate dei bestseller internazionali, tra cui “Alla fine della strada” del 1969 ripresa da Tom Jones, una voce straordinaria, con il titolo di “Love me tonight”. Un tempo i motivi presentati in gara si ricordavano facilmente, c’era una melodia di base orecchiabile, il giorno dopo si potevano canticchiare. La melodia è il punto più alto della musica, l’animo umano viene coinvolto perché percepisce armonia, bellezza e sentimento. Ora è diverso perché molte canzoni si basano sul ritmo ed ecco quindi la nuova missione di Sanremo: far tornare nel cuore degli italiani la melodia che è insita nella semplicità della canzonetta».
Lorenzo Pilat, in arte Pilade, triestino classe ’38, ha partecipato tre volte a Sanremo come cantante (nel ’66 in coppia con Celentano cantando “Il ragazzo della Via Gluck”, nel ’68 con Nino Ferrer e con Antoine, nel ’75 da solo con “Madonna d’amore” che vinse anche il premio della critica giornalistica) e più di venti
volte come autore. Se in Italia ha centrato hit come “Fin che la barca va” di Orietta Berti, il successo internazionale è legato al brano (scritto con Pace e Panzeri) ripreso da Tom Jones, ricorda Pilat:
«In sala d’incisione Panzeri chiedeva al batterista di andare sempre più veloce. “Alla fine della strada” la cantava Junior Magli, l’arrangiatore era un po’ titubante sulla velocità della batteria. Allora Pace andò in sala a Sanremo per dare il tempo al batterista facendogli un gesto con la mano ma non si sono capiti e sono andati così veloci che la canzone è durata un minuto. Un disastro, mi son messo a ridere ma anche a piangere. E invece, siccome la fortuna aiuta gli audaci, ecco che questo provino arriva a Tom Jones che dice “yeahhhh very good” e la vuole fare lui con un testo in inglese. Nelle classifiche mondiali, “Love me tonight” ha superato il milione di passaggi televisivi e radiofonici ed è stata premiata a Los Angeles, non sono andato a ritirare il Grammy perché ho terrore degli aerei. Tuttora è un bestseller».
Cosa pensa del Sanremo di oggi?
«L’Italia cambia di generazione in generazione ma le tradizioni e le abitudini rimangono e tra queste c’è sicuramente Sanremo, che da sempre ha riacceso la voglia di ascoltare, di partecipare. Un appuntamento che milioni di italiani prenotano di anno in anno. Tutto può essere cambiato, ma non la semplicità e la bellezza di una competizione canora, di un momento in cui la gente pensa allo spettacolo, alle emozioni che artisti e autori sono riusciti a creare. Sanremo non è solo musica ma è un piacevole alternarsi di storie che s’intrecciano sul palco tra ospiti e cantanti. Qualcuno potrebbe dire allora che Sanremo è una cosa meravigliosa: in parte lo era. Dico lo era non per avere il solito pensiero critico ma per evidenziare un passaggio naturale del cambiamento d’intenti dalla musica allo spettacolo, dalle emozioni canore alle emozioni umane».
Con che spirito andava a Sanremo?
«Non mi interessava di vincere perché richiedeva dei compromessi, mi bastava partecipare. Perché se partecipavi, il pacchetto musicale veniva proposto in tutto il mondo… Si vendevano i dischi, i discografici e gli editori avevano tutto l’interesse adesso non è più così».
Un bravo cantante?
«Deve essere intonato. Delle donne l’ultima intonata è Giorgia. Orietta Berti a volte è calante ma mi da emozioni. Mina non avrebbe mai cantato “Fin che la barca va” e secondo me questo è sbagliato, perché un bravo cantante deve saper cantare tutto.
Claudio Villa per me resta il cantante italiano per eccellenza, o Giorgio Consolini che era meraviglioso, un romantico della vecchia guardia».
Ai tempi lei curava molto anche l’immagine?
«Ci vuole anche la presenza, mi guardavo allo specchio prima di andare in televisione. Curavo i dettagli. Seguivo le mode, senza esasperazione. Mi sono fatto anche la pelliccia di scimmia, eravamo in tre ad averla nel 66: io, John Lennon e Gina Lollobrigida. Si può essere moderni ma non straccioni. Mi ero fatto fare gli stivaletti, avevo una collana, una borsa di pelle Gucci».
Spesso il ruolo dell’autore non è valorizzato.
«Il pubblico identifica il cantante con la canzone, ma spesso non l’ha scritta lui. Poi ci parli e lo trovi differente da quello che immaginavi. Il cantante fa successo ma se non ha un buon autore non va da nessuna parte. Mogol ha fatto dei bei testi, in coppia con Battisti era esaltante. Lucio? Un bravo ragazzo, mi fa male parlarne pensando che non c’è più».
Ha vissuto a Milano, per tornare poi nella sua Trieste.
«Sono andato a Milano a 23-24 anni, avevo vinto tutti i concorsi possibili in Italia e Vittorio Salvetti, anche lui esordiente, mi aveva notato e ha cominciato a propormi alle case discografiche e soprattutto a farmi entrare nel Clan di Celentano. Ho avuto anche un ruolo nell’avvio del Festivalbar. Salvetti aveva bisogno di uno sponsor, la ditta Moccia faceva la Sambuca, andavamo in un ristorante con i rappresentanti, suonavo la chitarra e diventava una cosa divertente, si otteneva la simpatia dello sponsor. Dopo vari incontri si sono decisi a concedere un po’ di soldi per realizzare il Festivalbar che è poi decollato con la prima edizione ad Asiago che io ho vinto (sezione giovani).
Milano mi piaceva molto, per il ritmo: non si dorme. Io vivevo in una pensione a Porta Vittoria, volevo stare in centro. Lì non si perdeva tempo. Milano mi ha
fatto scoprire me stesso, quando si ha un piccolo successo aumenta l’entusiasmo. È stata una palestra, se non hai coraggio ti perdi, sei da solo. A Milano: Ci vediamo domani? Ma domani è già tardi. Ci vediamo adesso. Qua: se vedemo giovedì e parlemo. Ma come giovedì che oggi xe lunedì? La mentalità dell’immediatezza l’ho tratta da Milano».
E Celentano?
«La mia preparazione era superiore alla sua, suonavo meglio la chitarra, le mie abilità gli davano un po’ fastidio c’era il confronto, che fa paura a tutti, la competizione. Lui puntava sull’esibizionismo, il modo in cui si muoveva con le anche era davvero simpatico e poi ha una grande carica nella voce, una voce e un modo di cantare particolare e non posso che dire bene di lui. Anche se non è nata un’amicizia, ma non ho fatto lega con nessuno».
La sua infanzia e i primi contatti con la musica?
«Mamma era triestina e papà era venuto qua dal Friuli e aveva cominciato a lavorare a 12 anni. Sono nato in Via Fabio Severo, più o meno all’altezza della Trattoria Al Gambero Rosso, lì accanto non c’era niente, solo un cortile con le galline; poi abbiamo vissuto nelle case popolari in Via Paisiello, fino al ’64 circa. Quando mia mamma mi portava in braccio da piccolo, appena sentivo la musica provenire magari da qualche finestra muovevo le braccia: non sono nato tenore però ho sempre avuto il senso del ritmo e l’intonazione.
Ho cominciato a cantare le litanie nella chiesa di Via del Ronco, c’era uno degli organi più belli di Trieste. Poi a 16 anni ho cambiato la voce, ho cominciato a partecipare ai concorsi. Alla Birreria Drehr di Via Giulia, che era una specie di monumento, aveva un lastricato del 700 ed era una taverna bellissima con il giardino, l’orchestrina suonava dal vivo, al lunedì c’era la serata della lirica, al martedì il concorso per i dilettanti, al mercoledì la tombola… un locale spettacolare, ci stavano anche 400 persone. Nel 1959 ho vinto lì il primo concorso, mi hanno dato lo stivaletto d’argento e l’orchestra residente mi invitava ogni sabato a fare qualche canzone e ho cominciato a conquistare il favore del pubblico.
Ascoltavo la musica americana, qua a Trieste si sentiva il fascino degli americani che erano passati di qua. Noi eravamo forti nella canzone melodica, alla Claudio Villa ma io cercavo anche il ritmo del rock’n’roll. Tre accordi, ma mescolati al jazz, gospel, country, e anche ballo acrobatico.
Negli anni 60 a Trieste c’erano 30 sale da ballo, non esisteva disc-jokey e quindi ogni sala aveva la band che suonava dal vivo, quindi 30 orchestre che suonavano il giovedì, il sabato e domenica (due turni, pomeriggio e sera), si potevano prendere anche 200 mila lire al mese (un operaio prendeva 50 mila lire al mese) e quindi molte persone potevano vivere di musica».
Il presente (e il futuro)?
«Collaboro con Tele 4. In questi anni ho portato al Rossetti un Recital che si basa sul protagonismo del pubblico, porto la canzone triestina, ma anche il rock’n’roll. Le canzoni triestine mi sono uscite dal cuore. Il dialetto rappresenta la storia di un paese ed è giusto tenerlo vivo. Bisognerebbe seguire il mio esempio di spontaneità per creare una Trieste più allegra. Vorrei ritornasse lo spirito della Birreria Dreher. Io sono disponibile a mettere la mia professionalità per valorizzare anche il turismo cittadino. La voce l’ho ancora, l’entusiasmo anche e non voglio andare in pensione. Quando canto mi trasformo, sono un’altra persona. Cantare è un riposo del cervello, dimentichi le cose tristi. Cantate sempre. La melodia rimane, il ritmo è per ballare. L’americano ha il ritmo ma gli manca la melodia, la dolcezza. Puntare sulle melodie è da vincenti. È l’unica nostra forza. Spero che Sanremo l’abbia capito. Dovrei presentarlo io: con l’esperienza che ho sono sicuro che verrebbe una cosa bella (ride ndr)».
Elisa Russo, Il Piccolo 7 Febbraio 2017