Venerdì 20 dicembre alle 22, il Round Midnight di Via Ginnastica ospita uno dei nomi di punta del blues: Marco Pandolfi.
Il musicista veneto è sulla scena da tantissimi anni e vanta collaborazioni con alcuni dei più conosciuti bluesmen a livello mondiale (basti citare Paul Oscher e Bob Margolin della leggendaria Muddy Waters Band). Ha partecipato due volte all’International Blues Challenge, manifestazione che raduna negli Stati Uniti le migliori blues band di tutto il mondo: «Due esperienze straordinarie: nel 2006 ho partecipato col gruppo e nel 2011 nella categoria solo/duo. Ho avuto l’occasione di esibirmi in una vetrina internazionale facendo amicizia con musicisti provenienti da tutto il mondo, in una location che solo a pensarci mette i brividi: Memphis», commenta Pandolfi.
Che concerto vedremo a Trieste?
«Suonerò in duo con Federico Patarnello alla batteria e faremo un repertorio che spazierà dal tipico suono del Chicago blues degli anni ’40 – ’50 ad alcuni pezzi originali. Non abbiamo il suono di una band ma nemmeno quello del tipico duo acustico, è una via di mezzo. Cerco di fare una cosa molto essenziale. Suonare la chitarra e l’armonica contemporaneamente mi aiuta a rimanere dentro certi binari senza strafare (o almeno ci provo!), in linea con un certo modo di suonare il blues tradizionale che poi è stato la base per lo sviluppo di un genere musicale che oggi ha molte sfaccettature interessanti».
Ha suonato con tanti nomi leggendari del blues internazionale. Ha qualche ricordo particolare?
«Molti di loro hanno lasciato un segno su di me, ma uno in particolare è stato fondamentale per la mia carriera musicale e la mia visione del blues: Paul Oscher. Era uno dei miei miti e continua ad esserlo. All’inizio ascoltavo i suoi dischi, poi l’ho conosciuto, ho suonato con lui in Italia e negli Stati Uniti… diciamo che mi ha indicato una strada e mi ha incoraggiato molto dicendo cose di me delle quali vado molto orgoglioso».
A novembre ha vinto la finale italiana dell’European Blues Challenge, com’è andata?
«Mi sono iscritto alle selezioni con circa una settantina di band italiane. Io ho partecipato col mio trio (Federico Patarnello alla batteria e Lucio Villani al contrabbasso). Siamo stati selezionati per la semifinale del nord Italia e successivamente abbiamo guadagnato il passaggio alla finale italiana a Passignano sul Trasimeno dove abbiamo vinto. Rappresenteremo quindi l’Italia alla finale europea di Riga in Lettonia con le band provenienti da tutta Europa».
Il suo disco “Close The Bottle when you’re done” è uscito nel 2012. Che bilancio ne fa?
«Più che positivo. È stato dichiarato miglior disco blues italiano 2012 dalla prestigiosa radio blues romana Mojo Station ed uno dei migliori cd dell’anno dalla rivista Il Blues. Ha avuto la nomination della Blues Foundation americana nella categoria Best Self-Produced CD 2012 e, sempre negli Stati Uniti, sono stato finalista in due categorie dei Blues411 Awards: miglior armonicista e miglior produzione internazionale dell’anno. Non male per un CD autoprodotto, non l’avrei mai potuto immaginare».
Qual è lo stato di salute del blues in Italia?
«Bravissimi musicisti (molti dei quali apprezzati in tutto il mondo), buone band, poche occasioni per suonare in modo professionale. Sono quindi particolarmente contento di avere la possibilità di venire a suonare a Trieste (non siamo spesso in zona) e devo ringraziare l’amico e collega Manlio Milazzi per aver fatto da tramite».
Aggiunge Milazzi (armonicista e cantante triestino):
«Io faccio solamente da messaggero, sono tra amici e mi piace quando le persone che io stimo sia dal punto di vista personale sia professionale riescono a trovare un punto di incontro e creare situazioni musicali come questa. Mi piace pensare di riuscire a creare una finestra sulla musica che amo e che è molto difficile sentire dal vivo qui da noi. Mi piace trovare il modo di portare in città show incentrati sullo strumento che suono, l’armonica, in modo da poterla introdurre a un pubblico che spesso la conosce solo attraverso stereotipi stantii.
L’incontro fra me e Marco è avvenuto a Parma nell’estate del 2008. Premetto che io per lui ero un perfetto sconosciuto, io invece lo seguivo da tempo nella sua attività musicale. Sono a Parma al Rootsway Festival e sono in mezzo alla folla in attesa che il primo show della serata inizi. Nel tentativo di raggiungere gli stand della birra noto tra la folla un volto famigliare: Marco sta sopraggiungendo verso di me e man mano che si avvicina si apre in un sorriso ed esplode con “Manlio! grande…” resta un momento sospeso, io sono di sasso e lui “ma io… a te, da dove cazzo ti conosco?”. Questo è stato il primissimo incontro live con Marco Pandolfi. Eravamo “amici” di Myspace, ma non avevamo mai scambiato una parola prima di allora.
Marco è un artista straordinario, canta, scrive, suona la chitarra soprattutto suona l’armonica che non sembra neanche venire fuori da Vicenza. Quello che colpisce, rispetto a moltissimi colleghi italiani, è che Marco non è un “poser”, non si atteggia a bluesman, non si prende mai la briga di strafare.
La sua musica è semplice, sincera. Lo vedi salire sul palco con un sorriso quasi imbarazzato, quasi chiedesse scusa del disturbo. Poi ti prende per mano e ti trascina nelle sue canzoni che sanno di Sonny Boy Williamson, di Jimmy Reed, di Paul Oscher, ma soprattutto sono la sua visione del blues, oltre gli stereotipi che qui da noi vanno per la maggiore. Nessuna sorpresa se all’estero, negli Stati Uniti e in Europa, è considerato una figura di primo piano del blues contemporaneo».
Elisa Russo, Il Piccolo 20 Dicembre 2013