INTERVISTA BARMER BOYS AL TEATRO MIELA IL 18.10.19

«Siamo cresciuti in India con la frustrazione dei cliché in cui la musica è imprigionata: Bollywood e poco altro. Sapevamo ci fossero dei talenti nascosti nel blues e nel folk e volevamo scovarli e farli conoscere al resto del mondo»: parla Ankur Malhotra, radio speaker e dj, co-fondatore della Amarrass Records di Nuova Delhi e manager dei Barmer Boys, venerdì alle 21.30 in concerto per Miela Music Live.

Musicisti ma anche poeti narratori, Manga, Rais e Razak Khan portano canzoni che si tramandano di generazione in generazione ma, agli aspetti più popolari di queste radici musicali, fanno da contrappunto aspetti più attuali e metropolitani. Dopo il debutto nel 2011 all’Amarras Desert Music Festival, la loro prima esibizione internazionale è stata al Roskilde Festival nel 2014, dove hanno suonato prima dei Rolling Stones, apparendo poi a MTV CokeStudio, aprendo il Jaipur Lit Fest, e venendo presentati alla BBC, diventando così un punto di riferimento a livello internazionale, dividendo il palco con Bombino, Vieux Farka Touré, Fatoumata Diawara e Khaled.

«I Barmer Boys nascono nel 2011 – continua Ankur Malhotra – quando eravamo alla ricerca di talenti emergenti che esplorassero in maniera contemporanea il folk del deserto indiano, offrendo una prospettiva nuova della musica del Rajasthan e dell’India del Nord».

È la prima volta in Italia?

«Sì, e non vediamo l’ora di debuttare nel vostro splendido paese: Trieste, Firenze, Luzzara in questo tour che ci ha portati anche a Praga, Austria, Danimarca. L’Italia per noi è sinonimo di arte, musica, cibo e cultura in cui finalmente potremo immergerci. Ci lega anche la nostra agente booking Marisa Segala di Second to the Left che vive a Odense in Danimarca ma è nata dalle parti di Verona».

Il live?

«Portiamo gli antichi suoni del Rajasthan, dall’upbeat alle canzoni devozionali e vivaci jam con la beat box. Mescoliamo antiche canzoni spirituali alla tradizione folk e gypsy con le influenze moderne con strumenti particolari come il dholak (percussioni folk), il morchang (morsing), bhapang, khartaal, l’harmonium e la voce potente dalle tinte blues di Manga… ne viene fuori un trio compatto con un suono ballabile. Grazie a secoli di tradizione musicale e strumenti auto costruiti siamo riusciti a produrre suoni moderni, acid, techno, drum&bass e ritmi di danze percussive che erano già presenti nella musica popolare indiana».

Il messaggio?

«È una musica inclusiva, senza distinzioni di religione e status».

La giornata tipica di un “Barmer boy” quando non è in tour?

«Sveglia all’alba, si beve il tè chai, ci si occupa di capre e mucche, delle proprie piccole proprietà e campi di grano, si gioca coi figli che vengono coinvolti nelle lezioni di musica e canto, si siede sullo charpoy (letto-divano di legno ndr) all’ombra di un albero, masticando tabacco, chiacchierando con amici e vicini».

È stato difficile arrivare fin qui?

«Ci sono state parecchie sfide, per esempio insegnare al cantante, Manga, a usare un microfono, uno strumento a lui alieno; a complicare il tutto il fatto che non sa leggere né scrivere. Oppure andare oltre certi stereotipi: spesso veniamo presentati come “musica indiana” che include troppi stili e forme. Gli artisti indiani hanno senza dubbio meno opportunità degli europei e americani. Ma nonostante ciò, siamo riusciti con successo a portare questa musica in oltre 20 paesi, in 4 continenti, con centinaia di concerti e tanti fan entusiasti. Il che rende il bilancio più che positivo».

 

Elisa Russo, Il Piccolo Ottobre 2019

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