Domani alle 22 i Blake/e/e/e suonano all’Etnoblog di Via Madonna del Mare. La band è nata tra Chicago e Bologna, ed è stata fondata da due ex-membri dei Franklin Delano: Paolo Iocca e Marcella Riccardi. Completano la formazione Egle Sommacal (Massimo Volume) e Mattia Boscolo. Il loro recente debutto «Border Radio» (Unhip Records), intriso di folk, post punk, dub sta avendo ottimi riscontri.
«I Blake/e/e/e nascono in un seminterrato a Bologna», spiega Paolo Iocca. «Ci siamo poi spostati in studio con un batterista di Chicago, Davy DeLaFuente che si era appassionato a tal punto da venire a registrare aldilà dell’oceano. Insieme al nostro producer Bruno Germano ci siamo immersi nelle piste, nei cavi, nella strumentazione, effettistica e registrazione. Il come dei Blake/e/e/e ha due punti: primo: dopo i due tour negli States fatti con i Franklin Delano, una volta appurata l’immensità dei paesaggi americani, ci siamo sentiti limitati e costretti in un genere musicale, l’alt.country, che avevamo scelto proprio per la sua libertà. Secondo: non abbiamo tradizioni, possiamo scegliere o sognare di essere Nico nei Velvet Underground ma anche Cheikka Remitti con i suoi occhiali da sole sul palco o un suonatore di gamelan. Siamo figli della comunicazione e dei viaggi low-cost, non siamo cresciuti con i canti delle mondine ma con la sigla di happy days, …insomma non abbiamo tradizioni, sospiro di sollievo, ci piace sentirci liberi da confini culturali o generi musicali, ci piace divagare».
Ciascuno di voi ha importanti esperienze alle spalle, cosa rimane delle vostre precedenti band? State portando avanti altri progetti parallelamente?
«Quando lavoriamo a un progetto tendiamo ad essere monotematici e a focalizzare tutta l’energia in quello. Anche l’esperienza con i Franklin è stata così. Il percorso dei Franklin è nato con la fascinazione della ripetizione (vedi il nostro primo album, con tracce di 6 minuti e passa!); illuminati dalla libertà dei Califone abbiamo poi cominciato a cercare suoni nuovi, suoni nostri che magari non si potevano fare con il solito combo rock (batteria, basso, chitarra) e questo ci ha portato ai Blake/e/e/e».
L’album è denso di riferimenti ed influenze. Chi vi ha recensito ha tirato fuori un po’di tutto. In quali paragoni vi ritrovate, e in quali invece dissentite?
«I paragoni più eccellenti sono quelli con i This Heat che sì, ascoltiamo molto e Sun Ra che sì pure, ascoltiamo molto. Sono i paragoni-iperbole. Poi ci sono i riferimenti a Animal Collective, Akron Family, PJ Harvey, Velvet Underground, Flaming Lips, post-punk e dub. Sono tutte cose che amiamo e in cui ci ritroviamo. Non ricordo bene ma in una recensione hanno citato la musica sufi e anche questo ci è piaciuto. Il premio per i riferimenti meno azzeccati va invece a chi ha citato Mogwai o Death Cab For Cutie o (anche se baciamo le mani) Radiohead. Ma sai com’è, ogni recensore parte dal suo background musicale e ha i suoi riferimenti, è il bello della pluralità. Qualcuno ha scritto che si dovrebbe cercare di evitare la fuga dei cervelli parlando di noi, cosa che ci lusinga alquanto».
Qualcuno di voi è già stato a Trieste con i Franklin Delano, che ricordo ne avete, chi/che cosa conoscete della città? (Il primo a parlarmi molto bene di voi ben prima che il disco uscisse è stato Francesco Candura Stop The Wheel/ ex Jennifer Gentle…)
«È bello arrivare a Trieste da quella strada che passa attraverso la montagna. Con i Franklin abbiamo suonato una volta in un bagno degli anni ’20 sul mare. L’acustica era pessima ma l’ambiente veramente affascinante…Trieste è una città di frontiera, lingue diverse che si mischiano, i palazzi austro-ungarici, i templi serbo-ortodossi sferzati dal vento, il mare. So che a Trieste c’è stato l’unico campo di concentramento di tutta l’Italia e l’Europa meridionale… Francesco è un amico di vecchia data. È il musicista perfetto: impara tutto e subito, non si lamenta mai e in furgone non parla! (cosa che diventa fondamentale dopo lunghe ore…). Amiamo molto Stop The Wheel e, dimenticavo! A Trieste abbiamo anche collaborato con la Banda Berimbau, grazie a loro abbiamo inciso un bellissimo pezzo, una cover degli Os Mutantes, “Adeus Maria Fulo”. Sono veramente bravissimi».
Che tipo di live proponete? Le atmosfere ricreate sul palco sono vicine a quelle del cd o in qualche modo se ne discostano?
«Il nostro Live è qualcosa di mistico o perlomeno lo è quando viene bene. Non voglio dire che portiamo la gente in paradiso o che siamo illuminati da luci bianche provenienti da buchi nel soffitto. La mistica del concerto sta nella concentrazione che ci serve per portare avanti lo spettacolo. Usiamo molti strumenti, alcuni dei quali inusuali per un palco – derbouka, steel drum, banjo, mandolini, richiami per cacciatori, melodica, chinese balls, aggeggi elettronici e pedali. La gente che si aspetta un concerto indie-rock rimane spiazzata, perplessa. Il rock non appare mai, è sempre deviato su qualcos’altro. Dopo il primo impatto se ci si lascia andare può essere una bella esperienza!»
In un’epoca di downloading selvaggio, si continua comunque a vendere i cd, perlomeno ai concerti? Ci sono differenze tra Italia ed estero, nelle vendite ma anche nell’atteggiamento del pubblico?
«Le vendite calano, ma non penso che noi possiamo testimoniare in modo oggettivo questo tipo di tendenze. Non siamo un progetto normale, e i nostri sentieri lambiscono soltanto l’universo classicamente discografico, non ne fanno parte. Penso che comprare un cd o un vinile ai nostri giorni sia un semplice attestato di grande passione e stima. Noi stessi compriamo cd solo ed esclusivamente di artisti di cui andiamo matti, e spesso aspettiamo i loro concerti per acquistarli – anche perché costano meno e sono più sicuro che ci guadagneranno di più gli artisti stessi. Non crediamo molto nel settore discografico e nella catena ormai logora della grande distribuzione. Purtroppo la maggioranza degli attori di questo mercato sono ancora fossilizzati su queste logiche lente, vetuste, dispersive. Se un’etichetta non ha un distributore non è considerata credibile, ma i supporti venduti in distribuzione sono un’assoluta inezia, salvo rari casi. Un esempio su tutti: Madcap Collective. Se la cava egregiamente senza bisogno di un distributore, ma viene considerata un’etichetta minore per il semplice fatto che non ne ha uno. Un’assurdità. Pensiamo che a breve le etichette, intese come meri produttori di cd, andranno a sparire presto, e bisogna ridefinirne i contorni e il contenuto del concetto di etichetta guardando oltre la semplice vendita dei supporti, prima che sia troppo tardi e si crei un vuoto pneumatico che si tiri dietro tutti gli altri ambiti collegati (guarda ad esempio la crisi degli studi di registrazione e masterizzazione, ad esempio). In Unhip (la nostra etichetta), questo è sempre un tema caldo. Se ne discute e ci si ragiona tanto, cercando di dare risposte innovative alla questione. Non è un caso che Unhip sia anche il nostro booking ufficiale».
Elisa Russo, Il Piccolo 08 Dicembre 2008