Compositore contemporaneo, musicista tradizionale e rockstar: Goran Bregović ha combinato tutto assieme inventando qualcosa di universale e assolutamente suo, diventando icona della musica balcanica in tutto il mondo. Torna a Trieste a più di 5 anni dall’ultima esibizione: questa sera alle 21 sul palco del Politeama Rossetti sarà accompagnato da un’orchestra di 18 elementi (sei fiati, due voci femminili bulgare, un sestetto di voci maschili della chiesa ortodossa e un quartetto d’archi «Anche quando suono con tutta l’orchestra sinfonica – dice – metto comunque sempre i miei ottoni gitani che portano un po’ di follia») per presentare “Three Letters from Sarajevo”, produzione incentrata sul tema della diversità religiosa e della coesistenza pacifica, senza dimenticare un’incursione nei grandi successi. Sarajevo è la metafora dei nostri tempi, un luogo dove un giorno si vive da buoni vicini e il giorno dopo ci si fa la guerra: «Io sono di Sarajevo – spiega Bregović – sono nato su una frontiera: l’unica dove si incontravano ortodossi, cattolici, ebrei e musulmani. Mio papà è cattolico, mia mamma è ortodossa, mia moglie è musulmana. E mi sento anche un po’ gitano, forse perché per mio padre, colonnello dell’esercito, era inaccettabile che facessi il musicista, un mestiere “da gitano”, come diceva lui». L’artista bosniaco classe ’50, fondò la sua prima band a sedici anni: «Il rock aveva all’epoca un ruolo fondamentale nella nostra vita. Era l’unica possibilità per poter esprimere pubblicamente il nostro malcontento senza rischiare di finire in galera, o quasi». Il resto è storia: tour mondiali con i leggendari Bijelo Dugme, album che vendono milioni di copie, e poi le colonne sonore, particolarmente fortunate quelle composte per Emir Kusturica: “Il Tempo dei Gitani”, “Arizona Dream”, “Underground” (Palma d’Oro 1995 al Festival di Cannes): «Una delle grandi qualità dei film di Emir – commenta – è quella di mostrare la vita come realmente è, cioè piena di buchi, di imprevisti, di esitazioni. È questo lato imperfetto che ho voluto conservare. Ho avuto la fortuna di fare tre dei suoi migliori film. Con “Il Tempo dei Gitani” sono diventato compositore di film e a quei tempi ero la più grande star di rock’n’roll ma di colonne sonore non ne sapevo molto. Quel primo film lo feci per amicizia. Penso di avere pagato io i musicisti e lo studio perché Kusturica era sempre a corto di budget. Adoravo il suo metodo: non veniva mentre lavoravo ma solo alla fine, con una bottiglia e guardavamo insieme, così vedeva il suo film come fosse la prima volta». Tra le collaborazioni che ricorda con più piacere: «Scott Walker che era un idolo per David Bowie, i Gipsy Kings, Cesária Évora che quando veniva in studio buttava le scarpe perché i piedi le si gonfiavano e allora lei cantava sempre a piedi nudi, Iggy Pop che è venuto sul set a New York perché c’era una scena con Johnny Depp e anche lui per scherzo voleva fare un’audizione, cantava con una zucca sulla testa, la notte mi chiamò da un bar dove c’era un barista jugoslavo che gli aveva detto che sono un Dio e allora siamo andati nello studio di Philip Glass e abbiamo registrato qualcosa insieme».
«Già da un anno – conclude – sto lavorando a una serie tv di dieci episodi che racconta la storia dei migranti a Manchester. Un sogno nel cassetto? Quello che mi è successo finora è già un miracolo. Dico solo: avere il tempo di scrivere ancora qualcosa che resti, qualcosa per cui le mie figlie non si vergognino di me».
Elisa Russo, Il Piccolo 12 Aprile 2019