«La musica è cuore e anima, la fai prima per te e solo poi speri piaccia agli altri. Ritrovi te stesso nella proposta artistica e qualcuno si riflette in quello che fai»: il triestino Luca Turilli presenta il suo nuovo disco «Zero Gravity (Rebirth and Evolution)», firmato Turilli/ Lione Rhapsody. Riassumendo brevemente la storia: negli anni ’90 Turilli alla chitarra assieme al concittadino Alex Staropoli alle tastiere, fonda i Rhapsody. Un successo strepitoso: la band di metal sinfonico vende oltre un milione di copie e gira il mondo; nel 2006, per motivi di copyright, allungano il nome in Rhapsody of Fire. Nel 2011 Turilli esce dalla band, i Rhapsody of Fire continuano il loro percorso guidati da Staropoli. A complicare l’intreccio: nel 2017 Turilli lancia un tour di reunion dei “vecchi” Rhapsody, a cui però Staropoli non partecipa.
«Una celebrazione importante, un tour di addio, peccato che mancasse Alex – racconta Turilli –. Ho ritrovato il cantante Fabio Lione e gli altri ex componenti, dovevano essere 6-7 show e ci siamo ritrovati a suonare per due anni, oltre 70 spettacoli: le prime date hanno avuto un successo tale che i promoter hanno insistito. È stata una cosa inaspettata, perché dopo vent’anni non dai per scontato nulla. E invece abbiamo avuto un riscontro pazzesco, con un pubblico di affezionati ma anche nuove generazioni che ci scoprivano».
Da lì ha deciso di continuare con Lione?
«L’idea iniziale era di proporre un rock sinfonico o progressive nello stile dei Queen e Dream Theater con produzioni moderne, creando una band dal nome Zero Gravity ma ci siamo resi conto che sarebbe stato come ripartire da zero (per le proposte che ci venivano fatte dai promoter). Abbiamo trovato una soluzione che potesse soddisfare tutti: abbiamo mantenuto il nome Rhapsody, cambiando il logo in modo da distinguerci dai Rhapsody Of Fire».
Le novità?
«Il suono è più moderno, d’impatto. Tematicamente nulla a che fare con l’episodio irripetibile della saga, a cui ho dedicato 15 anni e 10 album assieme a Staropoli. Abbiamo aggiunto anche qualche elemento molto spirituale, vicino alla musica etnica con una ricerca di strumenti particolari, suoni indiani, tibetani. Ho intonato per la prima volta le chitarre in DO anziché in MI, ci siamo avvalsi del lavoro di Simone Mularoni che ha registrato, lasciando a me e Lione il ruolo di produttori. Quattro mesi di studio a San Marino, per un lavoro di missaggio molto lungo, un mese per registrare la sola voce, volevamo che l’intensità vocale fosse il cardine, il centro dell’universo, Fabio ha una voce incredibile, ancor più matura del passato».
Come mai uscì dai Rhapsody of Fire?
«Avevo pensato di lasciare l’heavy metal per dedicarmi ad altri progetti, sono un compositore e non riesco a focalizzarmi per troppi anni su un unico genere. Mi piace il pop, la mia cantante preferita è Adele, adoro la sua voce, oppure i Muse, li trovo una band perfetta, coniugano pop, rock metal e sono molto originali. Ho già realizzato una ventina di album nella mia carriera, sarei il primo ad annoiarmi se dovessi fare sempre la stessa cosa. Sento il bisogno di diversificare, anche gli strumenti: sono passato dalla chitarra alla tastiera, ogni strumento ti porta a comporre in modo diverso. Se sei un artista parli col cuore e l’anima e senti la necessità di offrire colori musicali diversi, corrispondenti a diverse fasi della tua vita. Qualcuno pensa sia un metallaro, ma semplicemente nel mio percorso ho avuto successo con una band metal. Io ascoltavo la techno, il pop dei Duran Duran, Pet Shop Boys, Spandau Ballet, ho sempre avuto il bisogno di non fossilizzarmi in un genere. Adesso ho anche un progetto di emotional piano, adoro Einaudi e Roberto Cacciapaglia, e uno pop con una cantante francese».
Dal 17 agosto sarete in tour: Corea del Sud, Finlandia, Svezia, Giappone, Australia…
«Porteremo le canzoni nuove e qualcosa di vecchio, abbiamo scelto quelle dei Rhapsody che non stonino con la proposta odierna, ci sono pezzi del passato che suonano ancora moderni, in giro per il mondo ci sono tantissime richieste, saremo per la prima volta in Australia».
Un concerto a Trieste?
«Per me è difficilissimo pensare di suonare a Trieste perché ci vivo e sono l’anti divo per eccellenza, faccio i concerti poi mi chiudo a comporre e mi isolo dal mondo, sto benissimo da solo con la mia ragazza… Dopo i tour ho bisogno della pace che solo Trieste può darti. Ai tempi della scuola sentivo lamentele dei coetanei del tipo “Trieste xe una città per veci”. Io l’ho sempre considerata un’oasi, avrei avuto la possibilità di vivere ovunque, forse avrei fatto un pensiero solo su New York. C’è questa sensazione di tornare a casa e stare in pace. Nella mia visione artistica fare un concerto in città romperebbe questo incantesimo».
Vive quasi da “eremita”?
«Sto sempre a Barcola, difficile staccarmi. Conduco una vita particolare. Ho il mare davanti, il giardino, lo studio, pratico Kundalini yoga, ho tutto quello che mi può servire quindi possono passare anche tre mesi di fila in cui non esca affatto. Al massimo un gelato da Zampolli che è il più buono del pianeta o anche quello di Marco De Martin».
La musica le ha dato tanto. Cosa le ha tolto?
«Quando lavori con la musica ti sembra sempre di poter fare di più, lavori sabato e domenica, non faccio vacanza dai tempi della scuola, non ho dormito tre notti in fase di missaggio, a volte è dura ma è ciò che adoro fare. Sono stato ricoverato tre volte per stress, una volta Staropoli mi ha riportato dalla Germania in ospedale qui a Trieste, con la meditazione mi sono salvato a livello di sopportazione delle tensioni».
Elisa Russo, Il Piccolo 7 agosto 2019