«Stanotte go fatto un sogno strambo/ ziti in fila mi e ti spetavimo/ che i distrigava problemi de vite come le nostre/ bastava darghe nascita e nome/ mi go dito forte el mio e per la prima volta/ i me ga credù»: questo «El sogno» di Massimo Serli, brano di apertura del suo album di debutto «In parziale miglioramento altrove». Registrato da Massimiliano Lepore e Alberto Guzzi, contiene 12 brani (quasi tutti in dialetto); c’è la musica brasiliana, il folk, il jazz, la canzone d’autore («apprezzo Fossati, De André, Bersani, Gazzè, Fabi, Silvestri e i loro testi che fanno pensare», dice) e l’influenza di Toni Bruna, che con il suo “Formigole” ha dato un nuovo corso al cantautorato made in Trieste.
Venerdì alle 20.30 Massimo Serli (voce e chitarra) presenta il cd d’esordio all’Auditorium della Casa della Musica, accompagnato da Diego Primosi alle percussioni, Andrea Medeot al contrabbasso e, ospite speciale alla tromba, Stefano Muscovi (Black Magic Big Band, Hot House Flowers, Jerry Fish, The Commitments…) ovvero gli stessi musicisti che hanno suonato sul disco (dove si aggiungono Caterina Serli alla tromba e Chiara Minca ai cori). L’ingresso è a offerta libera; alle 19 ci sarà un concerto di riscaldamento al Caffè della Musica, con Andrej Marao.
Classe ’65. Serli, da quanto tempo fa musica?
«Sin da ragazzino, quando sono passato dal pianoforte alla chitarra e poi al basso elettrico: nell’88 ho avuto la fortuna di conoscere Sergio Candotti e di studiare con lui alla Scuola di Musica 55. Negli anni ho suonato nei Maxmaber Orkestar (per cui avevo anche scritto alcuni pezzi) e Banda Berimbau».
E come cantautore?
«Scrivo da sempre, avevo tante canzoni nel cassetto… a chiudere il disco mi ha “aiutato” il mio ginocchio: a seguito di un infortunio mi sono dovuto prendere una pausa e ho trovato il tempo mentale per farlo».
Alcune canzoni le aveva già testate dal vivo.
«Per esempio in occasione di un festival organizzato da Toni Bruna e Stefano Schiraldi “Trieste dormi? Cantautori e poeti in dialetto triestino” nel 2010-2011. Apprezzo il lavoro di entrambi, sono stati un esempio».
Toni Bruna ha usato con maestria il dialetto, considerandolo “l’unica lingua possibile”. E lei lo definisce “lingua degli affetti”.
«Ho avuto la fortuna di crescere, amare ed essere amato in dialetto. È la lingua che uso con le persone con cui entro in confidenza, anche se non sono triestini. Mi viene spontaneo, lo uso per veicolare l’affetto e la simpatia, arriva diretto al cuore e alla pancia. Mi piace comunque giocare anche con l’italiano, per questo l’ho usato per alcune canzoni».
Lei, Toni Bruna, Schiraldi, Fulvio Bozzetta, Irene Brigitte avete mostrato che è possibile fare un uso poetico, non goliardico del dialetto.
«Spesso quando dico che faccio canzoni in dialetto, chi non mi conosce pensa a qualcosa tipo “Viva l’A e po’ bon”. In dialetto si può parlare di cose alte, profonde, pensiamo anche a Cergoly, Lacosegliaz… Il mio intento è scrivere qualcosa che susciti emozione».
Le musiche sono nostalgiche, d’atmosfera. Tuttalpiù c’è un’ironia sottile, come nel brano “Bestie”. Cosa l’ha ispirato?
«Lavoro come educatore per una cooperativa sociale, nelle scuole, con ragazzi con disabilità o difficoltà. Mi è capitato di confrontarmi con delle persone e chiedermi, come canto “perché te ga scelto de lavorar coi fioi?”, perché vedi proprio che non gliene frega niente. E poi magari si commuovono per un gatto… e “te ami tanto i cani che xe come persone/ che i xe meo dei umani”».
“Cossa te ga fatto serar el tuo cuor/ in un buiòl de croccantini”, si chiede alla fine.
«Attenzione, anch’io ho un cane e so che a suo modo fa parte della famiglia, ma m’inquieta quella forma di affezione per le bestiole di chi poi resta impassibile difronte ai bimbi con cui lavora “co semo fermi in fila ziti boni e muti, te ne ciapi la manina e/ te ne stacchi i brazi”».
Elisa Russo, Il Piccolo 5 Aprile 2019