JOYCE “Heart in a shell”

«La musica è un insieme di infiniti fattori, per quanto riguarda me, penso che le canzoni mi siano date, arrivano da qualche parte. Non c’è calcolo o pensiero. Nell’atto creativo non ci sono regole, razionalità, studi, non c’è nulla che si possa imparare, non c’è una strada da seguire. Non ci si siede a tavolino dicendo “adesso scrivo una bella canzone”, non funziona così. Alcune delle canzoni che ho scritto, melodicamente parlando, sono quasi dei regali anche per me»: è sicuramente un bel dono – qui nelle parole del cantante Jody Sion – “Heart in a shell” il singolo dei suoi Joyce, in uscita il 3 aprile sulle piattaforme digitali (Spotify, iTunes, Deezer), masterizzato negli Usa da Justin Shturtz (Sterling Sound) e distribuito da Optical Records di Berlino e Kontor New Media; e l’8 aprile arriva il video a cura di Sonicyut. Sfumature di punk, grunge e noise rock, senza disdegnare le strutture pop per una band triestina davvero promettente, dotata di tecnica, personalità, attitudine, capacità di scrittura. Tre fisse: Nirvana, Beatles, Oasis «Bisogna però inserire elementi che la gente non ha già sentito – dicono –. Abbiamo arrangiato le canzoni, studiato dei ritmi e delle sequenze che sono inedite». Il cantante e chitarrista Jody, figlio di David Sion (artista triestino-australiano che conta collaborazioni con Ron, Jovanotti, Lucio Dalla, Afrika Bambaataa) dopo quattro anni a Londra a perfezionare il suo inglese, nel 2017 vola a Berlino per raggiungere l’amico di vecchia data e chitarrista Nikolas Gregori, poco dopo si aggiungono il batterista e tecnico del suono Alessandro Aruffo (ex Hover) e il bassista Igor Borelli: nascono i Joyce «Nome scelto – spiegano – perché suona internazionale, ha stile, onora le nostre origini citando James ma è anche un nome di ragazza». «Io e Alessandro – aggiunge Jody – ci siamo conosciuti all’asilo, nel rione di Cologna, ci sentiamo come fratelli. Abbiamo cominciato a suonare a 13 anni e quindi per me è come se questa band fosse nata già allora». «Jody ha dedicato la sua vita all’arte – puntualizza Aruffo – quasi annullando il resto, ed è una cosa rara, in giro la vedo succedere sempre meno e questo si riflette sulle canzoni. Se si ascolta il tono, il modo di cantare, l’espressione, la melodia che c’è sotto si capisce che si ha a che fare con qualcosa di vero». Per quanto riguarda la scrittura, il cantante racconta: «I testi sono auto referenti ma, come immagino facciano i poeti, devi esprimere un pensiero che possa essere collettivo, che ciascuno può fare proprio. Cerco di mettere in parole un’emozione che tutti quanti abbiano sentito almeno una volta. Ci sono tanti riferimenti a poesie che ho letto. Mi sono ispirato a Kurt Cobain, che buttava giù le frasi come gli scorrevano in testa. Sono innamorato dell’inglese, lo studio ogni giorno. La mia mente pensa in italiano e in inglese ma il mio cuore batte solo in inglese». Ad agosto uscirà un ep che s’intitolerà “Whatever”: «Sarà graffiante e potente, rock e ruvido – concludono – per svegliare gli animi con canzoni che rappresentano la nostra storia, i nostri sentimenti e stati d’animo. Cerchiamo un equilibrio tra melodia, eleganza, potenza, senza eccedere in nulla. Ma vogliamo anche mandare un messaggio: provare a essere più liberi, puri, spontanei, dimenticare le complessità della vita, l’aspetto burocratico, le regole che ci inglobano e ci asfissiano. La musica di oggi è spesso molto finta, ma quello che offriamo noi deriva da duro lavoro e sofferenza».

 

Elisa Russo, Il Piccolo 28 Marzo 2020

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