Mettete nel frullatore punk, grunge, indie rock, condite con strumenti suonati con furore e bei testi in un inglese impeccabile: ecco “Whatever”, ep d’esordio dei triestini Joyce in uscita venerdì, distribuito da Optical Records di Berlino e Kontor New Media. «“Whatever” è graffiante e potente, rock e ruvido – dichiarano i Joyce – per svegliare gli animi con canzoni che rappresentano la nostra storia, i nostri sentimenti e stati d’animo. Cerchiamo un equilibrio tra melodia, eleganza, potenza, senza eccedere in nulla. Ma vogliamo anche mandare un messaggio: provare a essere più liberi, puri, spontanei, dimenticare le complessità della vita, le regole che ci inglobano e ci asfissiano. La musica di oggi è spesso molto finta, ma quello che offriamo noi deriva da duro lavoro e sofferenza».
Il cantante e chitarrista Jody, figlio di David Sion (artista triestino-australiano che conta collaborazioni con Ron, Jovanotti, Lucio Dalla, Afrika Bambaataa) dopo quattro anni a Londra a perfezionare il suo inglese, nel 2017 vola a Berlino per raggiungere l’amico chitarrista Nikolas Gregori, poco dopo si aggiungono il batterista e tecnico del suono Alessandro Aruffo (ex Hover) e il bassista Igor Borelli: nascono i Joyce «Nome scelto – spiegano – perché suona internazionale, ha stile, onora le nostre origini citando James ma è anche un nome di ragazza». La band ha già vinto concorsi regionali come Play Homepage a Udine, RonkinRoll a Ronchi dei Legionari e Julia Rock di Latisana; hanno partecipato allo Young Talent Stage dell’Open Source Festival a Düsseldorf e si sono esibiti in alcuni club Berlinesi, come il Marie Antoinette, il Tief, il Loophole, e l’iconico Wild at Heart: «Berlino – dice Sion – è per me la miglior città europea, attiva artisticamente, socialmente, politicamente, ha un’atmosfera unica». I Joyce hanno tre fisse: Nirvana, Beatles, Oasis. Alle inevitabili influenze, però, aggiungono un filtro del tutto personale fatto di arrangiamenti e sequenze inediti «Per esempio – spiega il batterista – ho inserito a dei ritmi rock dei colpi che sono brasiliani». Per quanto riguarda la scrittura, il cantante racconta: «Mi sono ispirato a Kurt Cobain, che buttava giù le frasi come gli scorrevano in testa. Sono innamorato dell’inglese, lo studio ogni giorno. La mia mente pensa in italiano e in inglese ma il mio cuore batte solo in inglese. I testi sono auto referenti ma, come fanno i poeti, devi esprimere un pensiero che possa essere collettivo. Cerco di mettere in parole un’emozione che tutti abbiano sentito almeno una volta. Ci sono tanti riferimenti a poesie che ho letto». In questi mesi di stop dei live i Joyce si sono concentrati, oltre che sulla finalizzazione del disco, sull’uscita di un videoclip (“Heart in a shell” a cura di Sonicyut) e la messa a punto del nuovo sito internet (joyce-band.com), con la speranza ovviamente di poter tornare presto a calcare i palchi con le loro – citando le note biografiche – “performance catartiche e attitudine nichilista”.
Elisa Russo, Il Piccolo 12 Novembre 2020