LACHY DOLEY A SAN GIUSTO IL 22.07.23

«Per la prima volta a Trieste prometto energia, emozioni, movimento e intensità»: l’australiano Lachy Doley è il protagonista del concerto organizzato dal Miela al Castello di San Giusto per TriesteEstate, sabato alle 21. Soprannominato il “Jimi Hendrix dell’organo Hammond”, Lachy Doley è al momento il più pirotecnico performer al mondo di questo strumento. Non gli interessa diventare una stella del pop, preferisce piuttosto essere virale in rete: i video dei suoi live ogni volta registrano milioni di visualizzazioni come nella sua versione di “Voodoo Child”.

«Ho già avuto l’occasione – racconta – di venire in Italia. La prima volta che ho messo piede fuori dall’Australia è stato nel 2000 a Roma, con un’altra band. Quando mi sono sposato, siamo venuti in viaggio di nozze sulla costiera amalfitana, una meraviglia. Sarò banale ma: amo gli italiani, l’espresso, la pizza margherita». 

A cosa si riferisce il titolo del suo ultimo album, nono della carriera, “A World Worth Fighting For” (un mondo per cui vale la pena lottare)?

«Al mondo che lasceremo ai nostri figli. Cambiamenti climatici, guerra, tecnologia: molti di noi hanno paura di ciò che sarà tra 25-50 anni. Vorrei che mio figlio crescesse nella pace e sicurezza di cui ho goduto io. Dobbiamo smetterla di distruggere, e creare qualcosa di meglio». 

E a livello di sonorità?

«Volevo aggiungere nuovi suoni e colori. Mi sentivo intrappolato nel blues, perché amo tanti altri generi e questa volta ho ampliato gli orizzonti. Ne sono felice». 

Quando registra ha in mente la resa dal vivo?

«Non tanto. In tour siamo in trio, ricreare tutte le parti strumentali del disco è una sfida. Ma una bella canzone resta tale, indifferente il vestito che le metti addosso». 

Che dire dei suoi strumenti: l’organo Hammond e il whammy clavinet?

«L’Hammond è un organo presente in tutti i dischi più famosi degli anni ’60 e ’70, con un ruolo chiave di supporto a voce e chitarra. Adoro il suo suono. Oggi lo si trova ancora nel roots, soul, blues, rock. Per la mia musica è cruciale. Il suono del clavinet (una specie di tastiera) è quello di “Superstition” di Stevie Wonder; il whammy ne è un’estensione, produce un suono simile a quello di una chitarra e alla gente piace un sacco». 

Jimmy Barnes, Glenn Hughes, Billy Thorpe, Joe Bonamassa, Powderfinger: che ricordo ha di queste collaborazioni?

«Mi sento davvero fortunato, ho imparato tanto da tutti loro: sulla scrittura delle canzoni, la professionalità, l’etica del lavoro, la performance. Non sarei quello che sono senza di loro».  

La sua città, Adelaide, come l’ha influenzata?

«Ha una magnifica scena musicale, piena di musicisti incredibili che mi hanno fatto da mentori. Rimango ancora stupito quando ritorno lì e vado ad ascoltare gli artisti che già conosco e quelli nuovi. Come tutte le città più piccole puoi trovare una dimensione molto confortevole. La curiosità ti spinge verso qualcosa di più grande, ma non è detto che sia migliore».  

Qualcosa da segnalare per il futuro prossimo?

«Onestamente non so di preciso, la mia creatività e la mia ispirazione sono sempre aperte a tutto, vediamo che succede. Ho così tante idee da non avere abbastanza tempo per realizzarle tutte. Spero arrivino altre collaborazioni come quella con Bootsy Collins. Rimanete sintonizzati». 

Elisa Russo, Il Piccolo 21 Luglio 2023

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