MARRACASH A MAJANO IL 23.07.22

«C’è una corrispondenza molto forte tra quello che canto e quello che sono. Il mio rapporto con il pubblico si basa soprattutto su questo»: arriva in regione Fabio Bartolo Rizzo in arte Marracash, live all’area concerti del Festival di Majano sabato alle 21.30. Apre il concerto il rapper friulano Fè, classe 1994, che con la sua musica cerca di ribaltare alcuni cliché del rap cercando di essere un buon esempio. Sul palco con il “King del rap” ci saranno: Jacopo Volpe (direzione artistica e batteria), Alessandro Marz (producer-sequenze), Eugenio Cattini (chitarra), Roberto Dragonetti (basso), Claudio Guarcello (tastiere). Al centro dello show “Noi, loro, gli altri” uscito nel 2021 e fresco di Targa Tenco come “Miglior album in assoluto”, ma anche “Persona” del 2019 e tutte le hit che il rapper nato a Nicosia e cresciuto a Milano nel quartiere Barona ha inanellato in questi anni.

«L’idea alla base dello spettacolo che porto a Majano – racconta Marra – è cercare di elevare questo genere anche dal punto di vista della performance hip hop, che spesso sono un po’ disgraziate, con un rapper solo sul palco con l’autotune e le steccate. Il tour sarà un’altra cosa: c’è una band, ho fatto settimane di prove super intense e secondo me sarà una cosa mai vista, con dei visual che completeranno il tutto e un grande palco».

Cosa può anticipare della scaletta?

«Io sono il filo conduttore tra i pezzi. Così come convivono nell’album, convivono live. Andrò a “mood”: una partenza più dura e dei cambi di suono, con dei momenti più pop solo con il deejay».

Il suo rapporto con il pubblico?

«Da sempre si basa sulle canzoni, dò tanto di me stesso. Se uno ha seguito il mio percorso, ha ascoltato bene i miei testi, se è un mio fan, sono certo di poter dire che mi conosce».

Che effetto le ha fatto vincere la Targa Tenco?

«Un onore incredibile per me. È assurdo perché un anno fa circa cantavo “meriterei il Premio Tenco per il fottuto talento che tengo” ma non pensavo sarebbe successo davvero. In questo paese non c’è mai stato questo tipo di riconoscimento, per cui sono davvero molto contento. Spero che questo sia un grandissimo segnale non solo per la mia carriera, ma per tutto il genere».

Che disco è “Noi, loro, gli altri”?

«Davvero inusuale per un mercato come quello italiano e il successo che sta avendo è oltre ogni più rosea aspettativa. È un disco non facile, con poche tracce, pezzi senza ritornello con delle strutture strane, è stato molto difficile da scrivere, emotivamente provante. Doloroso perché devi scavare dentro di te e non sempre quello che trovi è piacevole, anzi quasi mai. È come aver dischiuso il vaso di Pandora e, nel farlo, ho dovuto fare i conti pubblicamente con dei lati di me stesso».

Lo stato di salute del rap?

«Credo che l’hip hop in generale, non parlo solo dell’Italia, stia affrontando una rivoluzione. Non trovo che sia più così rivoluzionario mettersi una collana d’oro al collo come nei ’90 un afroamericano che dal nulla, da un ghetto, diventava qualcuno. Questo tipo di narrazione è stata over sfruttata: si è sentita in tutta le salse. L’hip hop italiano ha dovuto affrontare un lungo percorso di accettazione, di esclusione dai canali principali. Tanti ragazzi di oggi dicono “gang” e parole simili: non li condanno perché per loro l’hip hop è un’estetica. Così come lo è il rock. Oramai se tu fai il rap devi dire “gang” anche se non hai niente a che vedere con il bando, né con le case popolari, né con le gang. Sono parole da manuale del rap».

Elisa Russo, Il Messaggero Veneto 21 Luglio 2022  

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