Una vita intera dedicata alla musica, quella di Massimo Bonelli. Un discografico illuminato, per decenni (fino al 2010) direttore generale della Sony Italia: Bob Dylan, Bruce Springsteen, Rolling Stones, Michael Jackson, Pearl Jam, George Michael, Pink Floyd, Queen, Duran Duran, Fossati, Battiato, Baglioni, De Gregori, Guccini… difficile trovare una star con cui non abbia lavorato. In questi anni sta raccontando la sua vita avventurosa con alcuni libri, come il nuovo “Rockonti – storie ai confini tra fantasia e realtà” con una formula particolare, dove la finzione si intreccia con la realtà. Una carriera di successo a Milano, sua città d’adozione e viaggi in tutto il mondo, eppure se gli chiedi da dove viene, risponde senza esitazioni: Trieste. «Sono nato a Conegliano Veneto nel ’49 – spiega –; mia madre (milanese) è scappata da quella cittadina lasciando un padre violento e mi ha portato a Venezia, dove ho vissuto un anno; a Mestre ha conosciuto un uomo di Trieste di cui si è innamorata e così siamo arrivati nel capoluogo giuliano a metà anni ‘50, una notte in cui c’era un lieve terremoto, potente come arrivo».
E quanto vi è rimasto?
Ho vissuto a Trieste fino alle medie. Stavo in Via Montfort, ho frequentato la scuola elementare Nazario Sauro, poi una scuola media vicino a Piazzale Rosmini, in Via Locchi (via in cui ho anche vissuto). Andavo a giocare in zona Campi Elisi, Passeggio Sant’Andrea, a nuotare alla Piscina Bianchi… Qui è maturato il mio spirito, anche musicale. Mi è rimasta nel cuore, tanto che se qualcuno mi chiede da dove arrivo io rispondo sempre Trieste, la sento la mia città, mi ha formato e ci sono tornato abbastanza spesso. Quando torno mi piace andare da Pepi, dove si comincia a mangiare il cotto con il cren alle otto del mattino, e amo Piazza Unità.
A 12 anni dove si trasferisce?
In collegio a Monza. Ho frequentato il liceo classico, ho cominciato a viaggiare. A Milano avevo tra le mie amicizie un negoziante di dischi. Ero lì in negozio vestito da figlio dei fiori, camicia indiana, pantaloni colorati a vita bassa, capelli lunghi, c’era una persona molto elegante che diceva che stava abbandonando la sua attività, gli chiesi se potevo presentarmi al suo posto; mi ha guardato dal basso (dagli zoccoli che avevo ai piedi) in alto e con aria indignata mi rispose “chiunque potrebbe”. Mi sono comprato il primo vestito della mia vita, di fustagno marrone, con la camicia azzurra. Il giorno dopo con la mia due cavalli, macchina Citroen unica a Milano all’epoca, mi sono recato alla Emi, solo che quel giorno pioveva e il vestito mi si è tutto ritirato, sembravo davvero un disgraziato, ho fatto un colloquio e quello che mi ha assunto non mi ha neanche guardato. Nel 1971 sono entrato così in discografia. Bobby Solo e Stefania Rotolo tra i primi con cui ho lavorato.
Nell’85 invece passa alla CBS?
Come nel mercato dei calciatori mi ha comperato, quando invece Cecchetto avrebbe voluto che andassi con lui a lavorare come direttore di una televisione. Poi sono stato il capo della Epic (Michael Jackson, Sade, George Michael, Pearl Jam) e l’ho portata a valori enormi anche in Italia per cui sono diventato capo e presidente della Sony Music.
Nel libro parla solo di artisti internazionali come mai?
Perché con gli italiani è un rapporto più lungo, con alcuni sono diventato amico con altri meno, però ti lasciano poco spazio alla fantasia, perché li senti quotidianamente. Con Francesco De Gregori siamo stati molto amici fino a una clamorosa litigata, eravamo sempre insieme, lui mi consigliava dei libri, io dei dischi. Fossati, Baglioni, Pravo, Bertè, li sentivo quasi tutti i giorni e sei sempre attratto dalle cose terrene, dai loro problemi, dai problemi che ti creano e anche dalle opportunità, mentre l’artista internazionale arrivava e se ne andava lasciando il vuoto da riempire con la fantasia che poi si legge nel mio libro.
Visti da vicino i miti crollano?
Se tocchi con mano una persona esiste, i miti invece sono leggenda. Però molti di questi restano tali, per esempio i Rolling Stones. Sono stato molto amico di Cyndi Lauper, degli America, di Springsteen, che è uno dei personaggi che trovo più coerenti nel mondo dello spettacolo, quello che canta e dice sul palco è lo stesso che è nella vita; questo vale anche per Eddie Vedder, due persone molto dolci, umane, impegnate.
Come vede la musica di oggi?
Quando ho lasciato la discografia era diventata noiosa a tal punto che non avevo più nulla a che fare con gli artisti ma solo con gli avvocati. Il mio entusiasmo, che di solito trasmettevo ai miei collaboratori, era rivolto alla musica, alle idee nuove, ci sono artisti che non esisterebbero se io non avessi fatto questo mestiere. Non guardo la tv da 10 anni, non seguo i talent, mi rifiuto di assistere a queste malvagità dove i ragazzini vogliono trovare la scorciatoia per arrivare in fretta al successo, e invece ti vestono da clown e ti mandano in pasto alla gente e poi se non hai un talento straordinario non resta niente. Mi piacciono le persone che si costruiscono su una base forte. Adoro la musica di strada. È il più bel palco che esista al mondo. I soldi buttati nel cappello sono una forma di godimento del pubblico. Da lì dovrebbe cominciare la gavetta.
Ha organizzato anche tre mostre, ce le ricorda?
“Una Vita tra Pop & Rock” (2014), raccoglieva tutti gli oggetti e il merchandising che in questi quarant’anni di discografia mi sono stati omaggiati da tanti artisti come Bob Dylan, Leonard Cohen, Keith Richards, Michael Jackson, De Gregori, Fossati. “I Colori del Rock” (2016) con opere di pittori, scultori e grafici che hanno fatto della musica uno dei temi della loro arte, Guarnaccia, Montani, Bressani, Lodola, Collura. Terza e ultima “Obiettivo Rock” (2017), un’esposizione di fotografia musicale.
Quest’anno ha pubblicato il libro “Rockonti – Storie ai confini tra fantasia e realtà” (Caissa Italia Ed.), un viaggio attraverso le sue esperienze musicali, professionali e di vita, rielaborate con un pizzico di fantasia, che permette di creare mondi altrimenti troppo stretti nella gabbia della realtà. 24 racconti che mescolano gli incontri reali con Dylan, McCartney, Springsteen, Bowie, Michael Jackson a scenari misteriosi, magici. «Non volevo essere l’ennesimo discografico che finita una lunga meravigliosa carriera, scrive le sue avventure; volevo andare oltre. Ho scritto il libro affinché piacesse a tutte le persone che amano la musica e non si limitano solo ad ascoltarla ma anche a viaggiare con la fantasia».
Il suo libro del 2016 “La vera fiaba di EmJay” (Lupetti Editore), è dedicato al re del pop: «Ho lavorato a lungo con Michael Jackson, un personaggio straordinario, un extraterrestre. Il libro lo descrive per come l’ho visto, un vero folletto, nato in un pianeta bello e allegro, poi va in un pianeta in cui impara tutto sulla musica e poi deve arrivare sulla terra, dove le cose diventano più concrete ma anche più violente. È stato messo sul palco dai genitori a 5 anni, non è mai cresciuto, pur arricchendosi sia di creatività che di soldi. Tutta la morbosità che la gente vedeva è frutto della cattiveria, non è mai stato pedofilo, è stato un bambino con altri bambini, senza desideri osceni».
Elisa Russo, Il Piccolo 16 Luglio 2022
