«L’evoluzione della chitarra è in mano a persone come lui». Lo dice Steve Vai di Matteo Mancuso, chitarrista palermitano classe 1996, figlio d’arte ed enfant prodige della chitarra. Musicista eclettico che pare provenire da un’altra galassia, Matteo si muove a proprio agio tra la chitarra classica e quella elettrica, sulla quale ha sviluppato una personale tecnica di finger style, unica nel suo genere, con linee incredibilmente veloci: un vero fuoriclasse con un enorme background jazzistico, nonostante la sua giovane età, che abbinato alle sue straordinarie capacità tecniche, lo colloca a pieno titolo tra le stelle nascenti del chitarrismo internazionale. È in concerto per Udin&Jazz oggi alle 21.30, in Corte Morpurgo. Lo accompagnano Stefano India al basso e Giuseppe Bruno alla batteria. Mancuso ha vinto nel 2017 una borsa di studio per il prestigioso Berklee College di Boston al Festival Umbria Jazz, il suo canale YouTube ha raggiunto centocinquantamila iscritti ed è molto seguito da un vasto pubblico internazionale. «La musica entra molto presto nella mia vita, ho iniziato a suonare – racconta – quando avevo dieci anni, ma già da prima ascoltavo molta musica, in famiglia suoniamo tutti: mio papà è chitarrista, mio fratello studia chitarra classica, mia sorella il piano… ho cominciato a capire che aveva la potenzialità per diventare una professione quando mi sono iscritto al liceo musicale, a 14 anni. Dietro il talento c’è sempre sacrificio (anche se non mi piace la parola, per me la chitarra è sempre un divertimento) e tanto studio».
Questa sera cosa propone?
«Un concerto dedicato all’album in uscita il 21 luglio. In più qualche cover che facciamo come tributo ai chitarristi e musicisti che mi hanno influenzato di più, Allan Holdsworth, Pastorius».
Che effetto le fa avere il plauso di Steve Vai?
«Mi ha riempito di gioia, è stato impagabile. Ti mette anche un po’ di pressione, ti senti in dovere di fare di più: è stato uno stimolo per finire l’album, una spinta».
L’incontro con Al Di Meola?
«Un sogno ad occhi aperti, è stata un’ospitata con due brani assieme ma è stato bellissimo, talmente surreale che ho realizzato di aver suonato con lui soltanto una settimana dopo. È stato di una disponibilità disarmante, abbiamo anche suonato e parlato molto nel suo camerino».
Con la PFM?
«La scorsa estate a Lugano il loro chitarrista Marco Sfogli non poteva esserci e ho suonato io solo per quel concerto, con un mesetto per prepararmi, per fortuna parte di quel repertorio lo conoscevo già. Molto difficile da memorizzare, i loro pezzi non sono semplici, ma ne valeva la pena».
Qual è il suo tocco personale?
«Non credo di avere chissà quale ingrediente in più, magari la mia tecnica è inusuale per la elettrica e mi ha aiutato a trovare delle soluzioni alternative rispetto a chi suona col plettro e ti porta a un fraseggio più personale, ma non ho inventato nulla».
Fare musica in Italia può essere complicato. In futuro si immagina all’estero o pensa di continuare a fare base qui, pur viaggiando molto?
«Io sono molto legato alla mia terra, voglio immaginarmi qui. Andrò a Los Angeles, in Europa, ma allo stesso tempo non vorrei separarmi dall’Italia, mi mancherebbe troppo».
Elisa Russo, Il Messaggero Veneto 14 Luglio 2023
