MORGAN AL POLITEAMA ROSSETTI 17.06.22

Se chiedi a Morgan «Chi è il Joyce della musica?» risponde senza esitazioni: «Io. Anche perché sono in esilio, sono emarginato. Invento, e la struttura la dissolvo perché ho dei procedimenti personali assolutamente funzionali ma che non sono conformi a quella che è la prassi comune, perché sono veramente libero. E sono ostacolato dal sistema». Morgan è protagonista musicale azzeccato per il Bloomsday, che nelle sue tante tappe, questa sera alle 21 fa rotta al Politeama Rossetti con “Morgan/ Joyce – un recital tra musica e letteratura”. «Mi sento molto simile a lui – prosegue Morgan, pseudonimo di Marco Castoldi, artista eclettico, cantautore, musicista, compositore e scrittore –, ha pagato le sue scelte libertarie, fu costretto a una fuga culturale perché considerato un promotore di deviazione. “Ritratto dell’artista da giovane”, semibiografia, non riusciva a pubblicarla e la scriveva su una rivista, a puntate, così come io metto i miei brani gratis su Instagram perché non esistono discografici in grado di comprendere e non me li pubblicano, quindi sono costretto ad andare sui social network, ambiente che non amo particolarmente, a far uscire le mie canzoni nuove».

Il recital che propone al Rossetti com’è costruito?

«Sulla logica del flusso di coscienza, esattamente quello che ci vuole per il Bloomsday. Una presenza in sé, non è una costruzione, non è frutto di un artificio o di una esercitazione. Svevo, Joyce, Musil, Landolfi scrivono dei romanzi di centinaia di pagine che in realtà stanno parlando di un lasso di tempo di cinque minuti. “Ulisse” si svolge nel tempo di una giornata. La mia non è una lezione su Joyce, accademicamente c’è chi ne sa più di me, la mia abilità è lo spettacolo, la performance, vado in scena nello spirito di Joyce».

E la musica?

«Un’invenzione, un racconto, ci sono molte canzoni mie che sono in sintonia, anche se non le suono mai dal vivo, non sono così note, farò tante canzoni strane e poi suonerò anche della musica da camera che Joyce amava molto».

“Se non sbaglio stamattina/ era il 1904”: così cantava in “Assenzio” con i Bluvertigo a Sanremo nel 2001. Il significato?

«All’epoca il mio computer quando si resettava, per un bug, come data segnava il 1904, allora mi sono informato sugli avvenimenti di quell’anno e ho trovato due cose che mi interessavano: il 16 giugno 1904, in cui Joyce è uscito per la prima volta con la sua Nora ed è poi la data in cui si svolge L’Ulisse, e poi è l’anno della prima rappresentazione della “Madama Butterfly” di Puccini».

Che idea ha di Trieste?

«Una realtà molto interessante perché di confine, mitteleuropea, una città di mare però fredda, c’è un tormento climatico che le dà un’eleganza molto rara. C’è un porto, ci sono stati molti scambi, è un crocevia, dove culturalmente sono avvenute cose importanti. Ha accumulato tanta arte. Probabilmente è anche abbastanza lontana dalla centralità dell’Italia, ha una sua autonomia e una sua visione delle cose non per forza influenzata dall’italianità».

Cosa intende per italianità?

«Mi riferisco a quella dell’italiota, dove non per niente c’è dentro anche la parola idiota. L’Italia ultimamente fa piuttosto pena dal punto di vista culturale, fa molta fatica a essere connessa alla vita artistica, alla produzione dell’arte, alla creatività, alla fantasia, alla libertà di pensiero. È inguaiata in una specie di burocrazia ottocentesca che obnubila i cervelli di quasi tutte le persone, sono tutti dei rigidi esecutori. L’Italia culturale è morta e putrefatta e Trieste invece sembrerebbe di no. Il fatto che sia in qualche modo un margine, un confine, è un suo pregio».

Da dove ricava questa impressione?

«Ho sentito ieri l’amico Paolo Rossi che ora ha scelto di vivere a Trieste, lui è un essere culturale di grandissima abilità ed energia, uno dei motori dell’Italia artistica. Poi in questo periodo comunico in una chat con dei ventenni triestini: parliamo di poesia. O ricordo quando nel 1998 fui invitato dalla galleria d’arte LipanjePuntin a scrivere la prefazione del catalogo “Still in Motion” e mi fecero conoscere David Byrne con cui sono ancora amico».

Che lettore è?

«Un libro che inizio e finisco lo leggo cento volte perché è un libro che mi entra nel dna e sarà ingrediente organico della mia produzione artistica, quindi ciò che inglobo, digerisco ed espello. Altri li leggo a spizzichi e bocconi, come “Don Chisciotte”, alcuni in un giorno come “Opinioni di un clown” di Böll, “Demian” di Hesse o “Il Barone Rampante” di Calvino, libri da sbranare con voracità. I libri di Schnitzler sono da bere come un cocktail. Poi ci sono i libri faticosi, ma che devi leggere, perché la lettura non è una cosa fatta solo per piacere, va fatta anche per dovere. Se non fuggi diventi una persona colta. I “Dialoghi” di Platone o Dostoevskij li trovo pesanti ma vanno letti».

“Ulisse” è pesante?

«Sì ma nel senso di importante: è un monolite, un blocco unico, come I Prigioni di Michelangelo. Quella di Joyce è una prospettiva talmente vera, reale, che uno non vuole entrare nei panni di un altro, c’è un limite anche di vergogna, di pudicizia. Se tu leggi “Ulisse” sei nella sua mente e non sempre hai voglia, ti costringe a dei flussi che non sono i tuoi».

Elisa Russo, Il Piccolo 17 Giugno 2022

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