«It was really very unique, molto speciale. Non mi ero mai trovato in un ambiente così particolare. Non avevamo la minima idea di chi potesse esserci in quell’ospedale, ci siamo trovati fra tanta gente di tutti i tipi e certo non avresti potuto dire, guardandoli in faccia, questo è malato e questo no»: anni dopo Ornette Coleman ricorderà così, a Maria Grazia Giannichedda, il concerto del 15 maggio 1974 a Trieste. Il grande sassofonista americano (morto nel 2015), padrino del free jazz, in quel momento non era forse del tutto consapevole di contribuire a scrivere la storia della città, essendo protagonista del primo concerto nel parco di San Giovanni, nell’ospedale psichiatrico che stava vivendo la rivoluzione basagliana ispiratrice della Legge 180 del ’78. “La libertà è terapeutica”: se Basaglia ha liberato la psichiatria, Coleman ha liberato la musica. E in assoluta libertà, più di tremila “esterni”, attratti dal nome di richiamo, si mescolarono ai pazienti (tutti i reparti erano già aperti), situazione che da lì si sarebbe ripetuta con naturalità, cancellando i confini (sempre labili) tra “matti” e “normali”. Loro, i cosiddetti “matti”, reagirono nelle maniere più diverse, chi si divertiva e rideva, chi si tappava le orecchie frastornato dal “rumore” che spezzava il silenzio del parco, chi come Rosina diventa protagonista con la sua armonica a bocca. Coleman raccontava di non aver affatto immaginato prima la situazione in cui si sarebbe trovato: il concerto si teneva nell’ex campetto di calcio a sette del parco, non c’era un vero palco, solo una pedana e mentre loro suonavano la gente andava e veniva intorno con l’aria incuriosita: «Era davvero molto bello, era real audience, un vero pubblico che si muoveva in modo consapevole, attento, coinvolto. All’inizio è venuta fuori quella signora, di lato rispetto a noi, dall’ombra, senza che nessuno la controllasse, suonando l’armonica. Si muoveva in modo molto tranquillo, convinta che non ci fosse nulla di sbagliato in quello che stava facendo, quasi professionale, suonava qualcosa che mi sembrò una canzone popolare. Mi ricordo che ho pensato “questa è musica, let’s join her, andiamole dietro”, e così abbiamo cominciato a suonare ciò che suonava lei». Un po’ meno rilassata la situazione per gli organizzatori, per come la descrive Peppe Dell’Acqua nel libro “Non ho l’arma che uccide il leone” (Edizioni Alphabeta Verlag, 2014), a causa di un manager olandese imponente, un capellone con una sirena tatuata sul braccio, che teneva i rapporti con loro e pretendeva saldassero subito quanto pattuito: «Niente soldi niente concerto – scrive Dell’Acqua –. Le persone entravano nel campo lasciando un’offerta a piacere. Avevamo incassato meno della metà di quanto serviva. Il resto sarebbe venuto da una banca che sosteneva l’iniziativa. Cercavamo di dire al manager che all’indomani la banca avrebbe liquidato il mandato di pagamento. Niente da fare. Coleman e gli altri erano trattenuti dietro un muro che faceva da quinta a pochi passi dal palco. Nell’imbarazzo generale dalla prima fila del pubblico viene fuori Rosina, tira fuori la sua armonica e comincia a suonare. Coleman sente la musica e fa capolino incuriosito, ascolta ancora per un attimo, si avvicina a lei che continua a suonare e riprende dolcemente le note col suo sassofono». A quel punto entrano Billy Higgins alla batteria, Sirone Norris Jones al basso e James Ulmer alla chitarra e, dall’aria di Rosina, s’innesta il concerto. Fu solo il primo: il 12 giugno arrivarono gli Area con la voce unica di Demetrio Stratos, in una delle sue ultime esibizioni. E poi tanti altri, tra il parco e il teatrino: il quartetto di Giorgio Gaslini con il friulano Andrea Centazzo, Dario Fo e Franca Rame, Francesco Guccini, Franco Battiato con Juri Camisasca, Gino Paoli, Alberto Camerini, i Saint Just di Jane Sorrenti, Dodi Moscati, Concetta Barra, Alfredo Cohen…
Elisa Russo, Il Piccolo 16 Aprile 2022
