Venerdì alle 22.30, il tour del cantautore lombardo (aretino d’adozione) Paolo Benvegnù parte dal New Age di Roncade (Treviso). Il suo nuovo disco, «Hermann» (La Pioggia Dischi/Venus) si snoda sul tema dell’uomo, della sua storia, la sua evoluzione (o involuzione) intorno a cui si muove un mondo fatto di immagini e intuizioni letterarie. Come un film, mai girato. «Hermann» parla di classici: i miti di Narciso, Perseo ed Andromeda, Ulisse. Affronta il mondo antico e moderno attraverso i conquistatori, i mistici, gli economi, gli scrittori (Henry Miller, Sartre, Melville) articolando un affresco di suggestioni ora ironiche ora commoventi. L’album è stato realizzato in parte allo studio Jork di Villa Decani (Capodistria) a pochi chilometri da Trieste.
La tua band è per te molto importante, tanto da chiamarli “i Paolo Benvegnù”.
«Assolutamente. Questo disco è un po’ la sublimazione di quello che sono stati per noi Benvegnù questi anni. Io ho cercato di trovare un contenitore, l’idea era quella di parlare della storia dell’uomo. Poi ciascuno ha portato la sua parte, in maniera molto democratica. Anzi, mi piace considerarci come dei carcerati che sono legati tutti insieme con la catena alle caviglie, quindi per fare un passo indietro bisogna fare tutti un passo a lato!».
Questa volta c’è anche un pezzo, in chiusura, cantato non da te ma dal vostro batterista, Andrea Franchi.
«È una delle chiavi fondamentali del disco. “L’invasore” è un tema nodale per l’uomo che molto spesso si sente invaso ma non capisce né perché né da chi. Mi piace moltissimo che l’abbia cantato lui».
I Benvegnù che ti accompagnano in tour?
«Guglielmo Ridolfo Gagliano che suona… tutto! Luca Baldini basso e contrabbasso, Michele Pazzaglia il nostro fonico e capitano della nave, Simon Chiappelli e Filippo Brilli che suoneranno dal vivo un sacco di strumenti, il già citato Franchi. Siamo come dei fratelli che grugniscono quando si trovano per mangiare, ma che si vogliono molto bene».
Mina ha sentito il disco?
«Non penso… non ancora. Forse lo sentirà. So che sua figlia Benedetta apprezza quello che facciamo. In passato Mina ha cantato una nostra canzone e mi ha molto stupito».
I testi sono davvero poetici e denotano un grande lavoro. Cosa c’è dietro?
«Ho studiato tanto. Per parlare dell’uomo bisogna guardarlo. Ho letto tanti libri, guardato tanti film, ho scavato dentro di me. In questo disco ogni frase ha una chiave specifica. È la prima volta che mi capita di riuscire a dare così profondità ai testi e ne sono contento. Abbiamo cercato di andare molto più a fondo, in qualcosa di universale. Parlare dell’uomo senza episodi tangibili».
E l’espediente di Fulgenzio Innocenzi?
«È un disco di letteratura. All’interno di questa letteratura ho usato un escamotage che usano in tanti (mi viene da pensare a Victor Hugo con I miserabili): per poter dire ciò che si pensa veramente si finge che queste parole vengono da un manoscritto ritrovato misteriosamente. Fulgenzio Innocenzi è la mia fonte, ed è pura invenzione».
La critica è innamorata di voi. Come mai?
«Forse perché siamo persone sobrie, piene di stupore, come dei bambini. La musica spesso è vista come business, questo non è di certo il caso nostro».
Il tuo rapporto con internet?
«M’interessa relativamente. Su Facebook possiamo spacciarci per chiunque: marziano, 39 anni, pelle viola… questo è un lato che non mi piace. Poi ci sono i lati positivi, se il web viene utilizzato come una grande biblioteca è interessante. Sempre controllando le fonti».
Elisa Russo, Il Piccolo 09 Marzo 2011