«È un concerto che tutta l’Italia vuole rivedere ancora, questa volta volevamo fare solo venti date, ma vanno subito sold out e ce ne chiedono altre: ora il tour ne conta quasi cinquanta». È Patrick Djivas, co fondatore degli Area e bassista della PFM dal 1973, a raccontare lo spettacolo “PFM canta De André Anniversary”, sabato alle 21 al Politeama Rossetti (in collaborazione con Vigna PR e FVG Music Live, ultimi biglietti disponibili). Quarantacinque anni dopo il tour “Fabrizio De André e PFM in concerto”, la prog band più famosa al mondo torna a celebrare il fortunato sodalizio con il cantautore genovese. In formazione, oltre a Djivas(basso) e Franz Di Cioccio (voce e batteria), ospite un altro membro fondatore, il tastierista Flavio Premoli, e poi Michele Ascolese, chitarrista storico di Faber e il leader dei Barock Project, Luca Zabbini. «Abbiamo la fortuna – prosegue Djivas – di avere un pubblico che ci dà molta energia e adrenalina, a volte prima del concerto ti sembra di non potercela fare per la stanchezza, poi arrivi sul palco e tutto cambia in un secondo».
Avete suonato al Rossetti nel 2019. Cosa cambia nello spettacolo?
«La formazione è un po’ diversa. E suonare lo stesso brano sempre nello stesso modo non appartiene alla nostra mentalità».
Il vostro pubblico?
«È un concerto per i giovani che stanno scoprendo De André. Non è solo per chi già amava Fabrizio: ci sono anche ragazzi che lo scoprono ora e ne rimangono folgorati. Dopo il concerto vengono da noi e ci chiedono di Faber, vogliono saperne di più e noi ci sentiamo quasi in dovere di diffondere il suo verbo».
Cosa lo rende così immortale?
«Più andiamo avanti più ci rendiamo conto quanto il suo lavoro fosse a fuoco in un modo incredibile. La perfezione dei testi, nulla era superfluo. A cena capitava ci raccontasse perché aveva scritto ogni parola di un brano, niente era casuale, neanche una virgola. Era una persona di cultura molto vasta».
Leggeva molto?
«Andavamo a trovarlo e di sera aveva 4-5 libri aperti sul letto, che leggeva contemporaneamente. “Io non seguo il ragionamento del libro, ma quello delle parole”, diceva. Era una persona fuori da qualsiasi logica».
Il tour con De André nel ’79 fece tappa anche al Rossetti. Ricorda?
«Mentirei. Ma il fatto che non ne abbia ricordo, significa che andò tutto liscio. A Napoli c’è stata una specie di guerra civile, non sapevi mai come andava a finire».
Ha nostalgia di quei tempi?
«Penso al futuro con gioia, lavoro per renderlo interessante. Nel presente, con la PFM cerchiamo di fare il massimo, non prendiamo nulla con leggerezza. E del passato mi mancano magari delle persone».
Oggi che realtà ci circonda?
«Un mondo che ha perso i suoi valori primordiali, umani. Tutto è freddo e digitale, una gara. Ognuno è incoraggiato nella sua guerra dai mass media che lo sostengono. Quello che sta succedendo non ha niente a che fare con la popolazione mondiale».
Siete sempre stati conosciuti come l’unica band italiana famosa all’estero. I Måneskin vi tolgono il primato?
«Era ora! Un paese che ha un solo gruppo rappresentativo a livello mondiale è povero musicalmente. Hanno avuto la fortuna di vivere un momento storico in cui i social amplificano tutto, quando si sono esibiti davanti a 80 mila persone era scritto ovunque, quando noi avevamo suonato difronte a 290 mila con Emerson, Lake & Palmer in Italia nessuno lo sapeva. Ne abbiamo fatte di tutti i colori, suonato al Madison Square Garden, Royal Albert Hall, almeno 7 mila concerti: tutte cose che auguro ai Måneskin».
Elisa Russo, Il Piccolo 02 Novembre 2023
