Ci sono due specie abbastanza simili e affascinanti solo a debita distanza.
Delle rockstar ho parlato nella rubrica precedente,
sta volta quindi parlerò degli animali.
Sfido chiunque a non rimanere ipnotizzato da un documentario sugli animali. Anche il più rivoltante. Alzi la mano chi non ha mai guardato, nell’ebetismo e sbigottimento totale, 20 minuti 20 di un serpente che si mangia un topo. O di uno stercorario che trasporta la sua pallina di… bhè avete capito. Che poi, va detto, sto insetto mica trascina solo sterco da mattina a sera. No, dentro lo sterco c’è il cibo, solo che gli viene più comodo trasportarlo imballandolo con sta roba. Se va in pizzeria, non si fa mettere la margherita nel classico cartone. Usa il suo pratico metodo. Non fa distinzioni. Anche se gli regali un diamante, lui usa sempre la sua inseparabile pallina per trasportarlo. E poi dicono perle ai porci…
Per dargli dignità letteraria, c’è da dire che nel racconto “La Metamorfosi” di Franz Kafka, il protagonista si trasforma in un insetto (non precisato), ebbene secondo Vladimir Nabokov, da diversi elementi si potrebbe dedurre che si tratti di uno scarabeo stercorario.
Comunque, non si sa perché, anche un documentario sullo stercorario catalizza e rapisce quasi quanto un balletto della velina mora e della velina bionda con il Gabibbo. Sempre scherzo della natura è. 
In questi giorni mi hanno colpito due filmatini sugli animali. Il primo è quello dello scoiattolo che difende un suo simile ormai morto al suolo, per impedire che i corvi se lo mangino. E li manda proprio via, a colpi di codina. Comportamenti simili, si sono già visti nei cani (protezione di un proprio simile morto o morente). Secondo qualcuno, si sarebbero visti addirittura negli uomini, ma non ci sono prove scientifiche e io finché non vedo non credo. E, stando a quello che passano i media, ci sono più pirati della strada e preti pedofili che umani con comportamenti lontanamente assimilabili anche al più debosciato tra gli scoiattoli. Mi viene in mente la scena del bagnante morto, coperto da lenzuolo mentre gli altri continuano a gremire la spiaggia con gaudio, spalmandosi crema solare e giocando a freesbee. Ho visto (intendo sui media) una situazione così almeno tre volte negli ultimi anni, ed una era proprio a Trieste. Nella più civile Guinea, invece, una mamma scimpanzè ha perso due cuccioli per un’epidemia e ha trasportato i cadaverini per 68 giorni. 68 giorni sono tanti. Eppoi non è che sì è stufata, no. È arrivato (neanche a dirlo) il maschio che le ha sottratto il cucciolo mummificato. Stessa cosa ha fatto una gorilla di uno zoo tedesco, che non si voleva staccare dal figlioletto morto. Ecco, io quando vedo questi clip, piango come una invertebrata. Non c’è niente di più primordialmente toccante e commovente.  
C’è da dire che anche gli animali non sempre sono impeccabili, e hanno qualche vizietto. Mi è capitato di trovare in rete un documentario in cui si mostrava il comportamento di un lemure che si drogava (con il succo di millepiedi!) e di un gruppo di scimpanzè che andavano a rubare i cocktail ai turisti sulla spiaggia e si ubriacavano. Almeno poi non urinavano in mezzo alla strada, non cantavano coretti da stadio, non palpeggiavano le bariste, non si mettevano alla guida, non rapinavano le vecchiette. Quindi, anche nel vizio, l’animale vince sull’uomo e si dimostra più educato. L’animaletto, così come il cucciolo d’uomo, più è fisicamente distante da me, più mi piace. Per questo non mangio gli animali, se posso non li avvicino, è probabile che il loro odore mi annienti, la loro imprevedibilità mi spaventa. Eppure li amo immensamente. Così come adoro e rispetto e mi commuovo difronte alla vita che nasce, al neonato in braccio alla neo-mamma e a tutte le grandi gioie che portano i bebè però se mi trovo nella stessa stanza del fagottino che odora di latte raffermo e pannolino farcito, tendo a sbiancare. Capitemi e compatitemi amiche mamme, non mi hanno messo il senso materno nel dna. Oppure me ne hanno messo così tanto che straborda e non metterei al mondo un figlio perché lo amerei troppo! (Si vabé, ti lascio perché ti amo troppo; io non ti merito; troverai la persona giusta per te etc).
Parentesi a parte la farei per gli insetti (da notare come sono passata con nonchalance dai bebé agli insetti…), con cui ho un rapporto controverso.
Trovarseli a casa, non è sempre un festino.
Una volta ho trovato uno scarafaggio in doccia, in palestra.
E si dovrebbe associare l’atto della doccia femminile ad un vecchio carosello del sapone con Virna Lisi (anzi no…lei faceva lo spot del dentifricio, quella del sapone era Anna Karina: fu lì che la scoprì Godard), non a un faccia a faccia con bacherozzo.
In questi giorni ho avuto un’invasione di formiche.
Piccole e maledette.
Una volta per tutte, io vorrei spezzare una lancia a favore della cicala. Che Esopo e La Fontaine ci hanno venduta come fannullona perdigiorno che poi se ne va a frignare, nel momento del bisogno, dalla formica. E la formica che s’è ammazzata di lavoro senza godersi mezzo secondo della vita che fa? Cristianamente aiuta chi è in difficoltà magari concedendosi il lusso di un sermoncino moraleggiante? NO. Sbatte la porta in faccia alla cicala, e che s’attacchi. E magari chissà che belle canzoni ha la cicala in saccoccia. La formica avrebbe potuto farla accomodare, offrirle un brandy, godersi un suo concerto e magari produrle un disco. Che esempio mi dai a respingerla così?
Io sposo il pensiero di Gianni Rodari, che scrisse:
Chiedo scusa alla favola antica/ se non mi piace l’avara formica./ Io sto dalla parte della cicala/ che il più bel canto non vende, regala.
Poi quando vedo formiche, la mia mente vola a Italo Calvino, al racconto “La Formica Argentina”. Una specie di formica particolarmente aggressiva e prolifica che negli anni Venti e Trenta infestò la Riviera di Ponente. La forza della formica argentina è il suo numero e la sua ostinazione. Il protagonista non riesce a comprendere il “dramma” finché non ne è lui stesso protagonista: “Se lui ci avesse parlato di formiche […] noi avremmo pensato di trovarci contro un nemico concreto, numerabile, con un corpo, un peso. […] creature di quelle che si possono toccare, smuovere, come i gatti, i conigli. Qui avevamo di fronte un nemico come la nebbia o la sabbia, contro cui la forza non vale”. I personaggi del racconto hanno diversi modus operandi di fronte al problema: quantità sproporzionata di insetticidi e veleni che si dimostarano comunque inefficaci: ingegnose trappole che eliminano in media 40 formiche al minuto ma vi è comunque una sproporzione di forze e di numero con i milioni di formiche che proliferano nel territorio. Infine vi è il signor Baudino che le nutre con una melassa leggermente avvelenata. Il protagonista si rende conto quasi da subito che non è possibile eliminare la formica argentina e che l’unica soluzione è la convivenza. Il racconto è un crescendo di angoscia di fronte ad un nemico invisibile e non numerabile che rende anche le situazioni più comuni spiacevoli. Insieme all’angoscia cresce anche la paranoia che culmina con l’aggressione della moglie del protagonista al signor Baudino, accusato di favorire la proliferazione delle formiche per mantenere il lavoro impiegatizio. 
Con il nemico è così.
“Se non lo uccidi ti ci puoi alleare”.
Ora vi saluto perché le formiche mi aspettano. E’ sabato sera e ho promesso di portarle a mangiare la pizza. Ma mi hanno pregato di non portare lo stercorario, finché non impara ad utilizzare i contenitori di cartone per la pizza.

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