“Preferirei dieci anni vissuti al massimo che settanta seduta in una poltrona a guardare la tv”.
Questa la filosofia di Janis Joplin, una delle voci più appassionate del secolo. Non solo interprete rock blues, ma anche simbolo della rivoluzione sociale e culturale degli anni Sessanta. Si proclamava la prima “bianca-nera” del mondo, beveva ed eccedeva nei vizi come e peggio di un uomo. La libertà le dava un piacere selvaggio ed irrinunciabile, ma c’era un prezzo da pagare. Morì a soli 27 anni, vissuti intensamente.
Alice Echols ne ripercorre le vicende con la biografia “Graffi in Paradiso – La vita e i tempi di Janis Joplin”, ristampata dalla casa editrice Arcana in un’edizione ricca di foto e discografia dettagliata.
L’autrice ha svolto cinque anni di ricerche ed interviste, cercando di non scadere nell’indagine morbosa, né nella sterile glorificazione di un’icona. “Questo libro parla di rock’n’roll, della sua relazione dinamica con la razza e il sesso, della fusione tra arte e commercio che derivò dalla svolta elettrica di Bob Dylan e dal pop ruffiano dei Beatles, della nascita del music business, specie dopo Woodstock, del revival del blues(…). Infine, questo libro sfida il pregiudizio che vuole “sesso, droga e r’n’r ” come una grossa e divertente festa collettiva. E’ stato scritto con stima e assoluto rispetto per quella cantante texana, scarmigliata e bruttina, che urlava: “No, it just can’t be” e intanto stava radicalmente cambiando il nostro mondo”.
Janis esordì come cantante folk nella città natale di Port Arthur, Texas. I suoi idoli erano Leadbelly, Billie Holiday e Bessie Smith, ma la cantante che cercò di imitare all’inizio fu Odetta, regina del folk prima dell’avvento di Joan Baez. L’adolescenza di Janis in una città definita “Il Grande Nulla”, le lascia molti ricordi dolorosi: in quel periodo sviluppa un senso costante di rifiuto e inadeguatezza. La fuga nel cuore della beat generation, a San Francisco e l’improvviso successo non l’aiutarono a sconfiggere il senso di solitudine e sradicamento che la perseguitarono per tutta la sua breve vita. (Celebre la sua frase: “Sul palco faccio l’amore con venticinquemila persone. Poi torno a casa e sono sola”.)
San Francisco negli anni Sessanta: parola d’ordine sperimentare. Dagli acid test di Timothy Leary alla psichedelia dei Greatful Dead. Janis passa da una storia d’amore infelice all’altra, e accantona definitivamente il sogno adolescenziale di metter su famiglia nella classica casetta con lo steccato bianco. Incanala tutte le sue energie nella musica, lavora duro per valorizzare la sua incredibile voce. Diventa cantante blues con i Big Brother and The Holding Company. La loro consacrazione
arriva al Monterey Pop nel 1968. Da quel festival ebbe origine tutta la forza travolgente del rock, e non solo Woodstock e Altamont. Dopo pochi mesi Jann Wenner inaugurò la rivista Rolling Stone. Il r’n’r non era più il figlio bastardo dell’industria dello spettacolo ma il suo gioiello splendente.
Le luci dei riflettori sono tutte puntate sulla stella nascente Janis, la stampa impietosa demolisce i musicisti che la accompagnano. I Big Brother realizzano il loro disco più bello, “Cheap Thrills”, prima che la cantante li abbandoni per intraprendere la carriera solista. Si era innamorata di Aretha Franklin e Otis Redding e voleva fare musica soul. Per la sua crescita era necessario essere accompagnata da musicisti più competenti. Se volevi cantare il soul dovevi vivere in modo adeguato, sperimentare tutto il possibile. Janis voleva sentire quella disperazione e quel dolore per poterne cantare e scrivere con passione. E riteneva che anche il pubblico lo volesse: “ Alla gente, che se ne renda conto o no, piace che i cantanti blues siano infelici”.
La sua morte, poco dopo Jimi Hendrix e poco prima di Jim Morrison pose molti interrogativi. “ Non riusciamo a fare di meglio?” si domandò il critico Don Heckman, infuriato dall’idea che persino la controcultura non fosse riuscita a creare un mondo “con sufficiente spazio per gli Hendrix e le Joplin”.
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