Paul McCartney, David Bowie, Robert Smith, Rolling Stones, James Brown, Joe Strummer, Serge Gainsbourg, Guns N’ Roses, Nirvana sono alcune delle rockstar protagoniste della mostra “Un oeil sur la musique 1980 – 2016” di Richard Bellia al Modernist Hotel, in Corso Italia 12. Inaugurata mercoledì scorso con grande affluenza di pubblico e la presenza dell’autore, sarà visibile fino al 12 settembre. Richard Bellia, nato nel 1962 a Longwy, in Francia, da adolescente comincia a seguire concerti in tutta Europa. Nel 1985 si trasferisce a Londra, dove rimane fino al 1992, pubblicando per le riviste di culto “Melody Maker” e “New Musical Express”, affermandosi come uno dei più grandi reporter musicali al mondo. È poi tornato in Francia, vicino a Lione, dove ha aperto una galleria d’arte, smettendo per scelta le collaborazioni con le riviste musicali (a suo dire, in una fase piuttosto discendente rispetto agli antichi fasti). Arriva per la prima volta a Trieste grazie allo sforzo della triestina Barbara Favretto che è riuscita a concretizzare un sogno nato diversi anni fa, quando rimase rapita dagli scatti del fotografo francese. «È stata un’avventura arrivare fin qui, viaggiando con tutte le foto da esporre, era da tanto che cercavamo una location in questa città, finalmente ce l’abbiamo fatta».

Qual è la forza delle sue foto, che spesso sono diventate iconiche? 

«Penso che il fascino delle mie foto stia anche nella bellezza delle attrezzature utilizzate (macchine a pellicola, prevalentemente bianco e nero, stampa a mano in gelatina d’argento), il risultato è una sorta di classicismo. O forse sono io un maledetto genio, chissà! Ma la qualità degli strumenti è fondamentale». 

Come ha cominciato?

«Oh, semplice: ho comprato la prima macchina fotografica e nel 1980 sono andato a un concerto dei Cure, in Lussemburgo. Ero piazzato davanti a Robert Smith, con i gomiti appoggiati sul palco “Hey mi piace la tua musica – gli ho detto alla fine -, posso avere il tuo indirizzo così ti spedisco le foto?”. Ora sono quarant’anni che gli mando le foto, prima via posta, poi mail. Il nuovo libro “Curepedia – i Cure dalla A alla Z” di Simon Price ha una mia immagine in copertina».

Un aneddoto sul frontman dei Cure?

«Nell’82 ho fotografato la sua fidanzata dell’epoca. Cinque anni fa mi salta fuori. Gliela mostro. Robert la guarda, tira fuori un pennarello colorato. La scarabocchia e dà in beneficenza: ha fruttato 65mila $. Non ci credevo. Hey è una mia foto!».  

Quindi l’amore per la musica arriva prima?

«Sì, adoro la musica. La amo più della fotografia. Scelgo prima di tutto con le orecchie».

È stato il suo modo per entrare in connessione con i suoi idoli?

«Al 100%. Smetti di sentirti un semplice idiota che pensa “quanto mi piacciono, quasi quasi vado a chiedere un autografo”. Posso sentirmi creativo, conoscere tante persone, andare ai concerti gratis. Il momento in cui li vedo da dietro il mio obiettivo e ci metto la mia creatività è splendido, mi fa stare bene. Stai continuamente ai concerti e ti porti a casa le immagini, le fissi nel tempo». 

Gli artisti poi la amano, specie da quando il suo nome si è affermato.

«L’ho notato di recente, mi invitano sul palco, mi menzionano, è tutto un “Oh Richard è qui!”. La vita del fotografo musicale può essere anche più stimolante di quella di una rockstar. Sì, perché a Jagger tocca sempre, da sessant’anni, cantare ogni sera “I can’t get no satisfaction”, io invece cambio, dall’hip hop al punk rock alla musica classica e contemporanea… è una ricchezza poter stare nell’aurea benedetta dei musicisti, respirare la loro energia ed emozione. I musicisti sono contenti che i fotografi bravi esistano, se ce li hanno attorno è una conferma del loro valore». 

Lì nella calca si è mai fatto male?

«C’è una lunga letteratura di fallimenti! Dagli spintoni, alle gomitate, alle macchine rotte… fa parte del mestiere».   

Che dire, invece, dei ritratti?

«A 23 anni mi sono trasferito a Londra, lavoravo per molte riviste come il “Melody Maker” che mi commissionavano i servizi. A volte pensavo: “tra due minuti avrò davanti David Bowie e mi pagano per questo, faccio il lavoro più bello del mondo”».

Oltre Robert Smith chi ricorda con piacere?

«Stavo pensando che lui è ancora vivo, mentre molti che ho immortalato non ci sono più. Per esempio Joe Strummer dei Clash, persona splendida».

Racconti.

«In Inghilterra teneva sempre questi concerti benefit contro il razzismo, o a favore dei bambini poveri in Africa. Nell’85 era arrivato il colosso Usa for Africa, ma negli anni era evidente che fosse solo un modo delle major per “vendere” meglio i suoi artisti. A giugno ’88, in occasione del “Mandela Day”, tutti vanno allo Stadio di Wembley con Simple Minds e simili… Strummer disse: “fermi tutti, siete lì per farvi belli” e nello stesso weekend c’era un festival di Amnesty International, al Milton Keynes Bowl, un postaccio. Lui suonò lì, con The Damned e tanti altri. Così ho avuto modo di fotografare anche i Ramones, non in un club di New York, ma a Londra, in mezzo al nulla».     

A Trieste espone una foto dei Nirvana del 1991, l’anno in cui suonarono qui a Muggia. 

«Li ho incontrati tre volte, a Londra, a Bristol, in Francia. A un certo punto si sono ritrovati davanti a migliaia di persone, e si comportavano come fossero ancora nei piccoli club. Un successo difficile da gestire». 

E i Blur?

«Un giornale in Francia scrisse per la prima volta di loro e mi commissionò le foto. Incidevano per la EMI, entrammo nell’edificio della casa discografica e ricordai che i Beatles erano stati fotografati lì sul balcone, avrei voluto replicare con i Blur ma purtroppo non ci diedero il permesso, allora siamo andati in un parco. Erano giovanissimi». 

Elisa Russo, Il Piccolo 16 Luglio 2023 

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