«Ho un legame formidabile con il Friuli Venezia Giulia, regione straordinaria, metodica, silenziosa, paziente, attenta, mai retorica, lavoratrice al massimo, con grandi slanci di affettività e sentimento»: Roberto Vecchioni non nasconde l’entusiasmo per il suo concerto di domenica alle 21 a Rivignano, evento gratuito per l’inaugurazione della Nuova Agorà del Friuli nell’ambito del progetto “Guardachestella”. «Lo spettacolo è vario – anticipa il celebre cantautore e scrittore lombardo – incentrato su un tema: tutti amano la vita, anche quelli che dicono di no, l’amore per la vita è un sentimento totale».
Si può dire che dal 2011, dopo la vittoria a Sanremo, abbiamo conosciuto un Vecchioni inedito?
«Mi sono tolto un sasso dalla scarpa. Ho sempre avuto questa grande virtù, o vizio, di scrivere quello che mi andava e di essere complicato a volte, di fare magari troppi accenni culturali, quindi ho avuto un pubblico molto fervente però mai popolarità, perché ero di nicchia. Sanremo è stata una scommessa, volevo dimostrare che scrivo anche canzoni popolari. Non mi aspettavo di vincere ma volevo far vedere che sono un cantautore come altri».
E cos’è cambiato?
«Il pubblico è aumentato a dismisura così come le vendite. Da allora ho solo dischi d’oro, “L’infinito” ne ha addirittura due, con 5mila vinili e più di 40mila cd venduti».
Anche la tv (su Rai3 con Gramellini) ha accresciuto la popolarità?
«Altra scommessa vinta, siamo partiti con 5-600mila persone e siamo arrivati a un milione e otto. Lì mi diverto tantissimo, posso dar sfogo anche a dispiaceri perché la lingua italiana è usata malissimo, tutti sanno le stesse cose, non indagano, non guardano dentro, siamo diventati dei pragmatici assoluti e non sappiamo badare allo spirito, che va coltivato tanto».
La sua passione primaria è la parola. Cosa si può fare con le parole?
«Tutto. Coi sintagmi, i cambiamenti, le sovrapposizioni… Conoscendo la loro origine, le strutture iniziali, le radici, non c’è parola che tu non possa capire. È la parola, non la ruota, l’invenzione più grande dell’uomo».
Il linguaggio dei cantautori come si è evoluto?
«Negli anni ’60 Endrigo, Paoli, Tenco, Lauzi scrivevano cose semplicissime, ma con grande proprietà di linguaggio. Negli anni ’70 si è complicata, è entrata la metafora, la sociologia, la politica: si pensi a quanto sono lunghe le canzoni di Guccini, ma anche Dalla, De André. La parola era importantissima e lo è stata fino agli anni ’80. E poi si arriva alla variazione dell’indie, del rap, la parola si è adattata al ritmo, al tempo, i rapper sono bravissimi a essere incalzanti però le loro tematiche sono ristrette».
Che rapporto ha con le sue hit?
«“Samarcanda” ha fatto quattro generazioni. Le mie 7-8 canzoni conosciutissime, sono andate tanto in radio, hanno vinto dei premi, il Tenco, Festivalbar, Sanremo… Ma io ne ho scritte 300 e direi che almeno 250 mi piacciono più di quelle».
Isola deserta: può portare con sé un suo libro o disco.
«Porto “Il libraio di Selinunte”, ne ho scritti dieci per l’Einaudi, ma quello mi resta più nel cuore, è una favola per grandi sulla parola».
Novità in arrivo?
«L’INDA (istituto nazionale dramma antico) mi ha chiesto di tradurre il “Prometeo incatenato” di Eschilo da rappresentare a Siracusa a maggio dell’anno venturo, per me una cosa strabiliante. Poi ho un romanzo da scrivere per l’Einaudi, nonché un disco. La trasmissione di Gramellini continua e ne ho in mente un’altra sulla storia della canzone d’autore».
Elisa Russo, Il Messaggero Veneto 03 Settembre 2022
Il Piccolo 04 Settembre 2022

