Questa sera, al Tetris, va di scena il blues di Samuel Katarro. Dietro questo nome si cela Alberto Mariotti, ventitreenne di Pistoia che sta riscuotendo un ottimo successo con il suo esordio «Beach Party». Un festino strampalato sulla spiaggia, in cui si incontrano Robert Johnson, i Gun Club, Johnny Cash, la psichedelia contemporanea di Mercury Rev e Flaming Lips. La dimensione acustica scarna ed essenziale tipica dei primi bluesmen e folksinger americani, immersa però in un’atmosfera più nevrotica di certa new wave americana anni ’70 (Pere Ubu, Devo, Talking Heads).

Il tuo disco è stato recensito ottimamente dalla stampa e ha avuto una buona visibilità. Che effetto ti ha fatto, te lo aspettavi?
«Essendo il mio primo album non avevo la minima idea di come sarebbe potuto essere accolto, gli unici responsi che avevo ricevuto erano relativi alle mie esibizioni dal vivo, che però sono estremamente diverse, come attitudine e atmosfera, rispetto all’album. Nonostante tutti i difetti che adesso emergono ad ulteriori ascolti, ero abbastanza fiducioso che “Beach Party” contenesse una miscela abbastanza particolare per farsi notare dalla critica, ma non da tutta. Mi sorprende proprio il fatto che sia piaciuto pressoché all’unanimità dei recensori. Mi ritengo davvero soddisfatto». 

Stai suonando parecchio in giro, come sta andando?
«Mi sembra che le cose stiano migliorando concerto dopo concerto, l’attenzione del pubblico, le situazioni, l’accoglienza, le vendite dei dischi ai concerti…. ci sono alcune zone in cui i live vanno meglio che in altre ma noto con estremo piacere che l’attesa da parte del pubblico di vedermi dal vivo è sempre maggiore, per cui non mi lamento affatto».

Quali differenze ci sono tra il live e il disco? È vero che il disco suona più psichedelico rispetto al concerto?
«Non so se suona più psichedelico o meno, sicuramente è meno grezzo e fisico, più cupo e opprimente rispetto alla schiettezza con la quale mi pongo durante i concerti. Per “Beach party” il processo di composizione e registrazione è stato piuttosto frammentario, in ogni caso ho avuto piena autonomia artistica circa gli arrangiamenti che avevo in mente da un sacco di tempo e che sono riuscito a realizzare dalla prima all’ultima nota. Nei concerti invece tutto è più istintivo, urlo, sudo, mi dimeno….».

Al Tetris di Trieste che concerto porti? (Sarai da solo o in duo?)

«Al Tetris sarò accompagnato da Wassilij Kropotkin, polistrumentista che ha inciso la traccia di violino in “This Garlic Cake” nel mio primo album. Questo formato mi permette di evidenziare gli aspetti principali delle mie canzoni: rockenrolleggiare dove ce n’è più bisogno con l’aiuto di una chitarra elettrica e trovare nuove soluzioni nei pezzi più psichedelici con l’aggiunta di un violino eccentrico, spesso effettato. Un rock’n‘roll scialo insomma».
Com’è stato lavorare con Marco Fasolo?
«È stato grandioso, divertente e imprevedibile. Diciamo che ha messo a disposizione tutto il suo talento per produrre un mixing originale con suoni molto più profondi e vintage rispetto a quelli che gli avevo presentato. Divertente perché è un ragazzo assai simpatico; imprevedibile perché stentava ad approcciarsi a “certe diavolerie digitali” per cui abbiamo imparato insieme, sul momento. Non abbastanza bene però, per cui gran parte del lavoro è stato portato a termine in analogico».

Hai aperto, tra gli altri per Pere Ubu ed Heavy Trash, che ricordo hai di queste esperienze?

«Con Jon Spencer e gli Heavy Trash non ho avuto nessun tipo di contatto, quindi direi che è stato un concerto come gli altri, solo con un pubblico un po’ più numeroso. La serata con gli Ubu invece è stata indimenticabile, sono una delle mie più grandi ispirazioni a livello musicale e quando tutti (compreso David Thomas) si sono complimentati dopo la mia esibizione è stato da sogno».

Hai partecipato al tributo ai Diaframma, Il Dono. Come ti sei trovato a cantare in italiano, pensi di farlo ancora?
«Per adesso no. Ho avuto difficoltà immense ad approcciarmi con l’italiano, personalmente mi risulta parecchio più arduo confrontarmi con la mia lingua madre e lo sforzo per riarrangiare, riscrivere e reinterpretare “Diamante Grezzo” è stato epocale. In fondo ne è valsa la pena perchè finire su un tributo ad uno dei miei gruppi italiani favoriti su richiesta dello stesso Federico Fiumani non è assolutamente cosa da poco».

Leggendo la tua rassegna stampa, hanno tirato in ballo diversi nomi per descriverti (Gun Club, J.Cash, Talking Heads, Flaming Lips, Robert Johnson, Beach Boys…) quali sono secondo te i paragoni più azzeccati e in quali invece ti ritrovi meno?

«Direi che i Beach Boys non c’entrano un bel niente, anche se indubbiamente sono uno dei miei ascolti più frequenti e li adoro alla follia. Per il resto nessuno ha sbagliato di troppo la mira, anche perchè ho un campionario di ascolti così vasto che è difficile citare un nome che non conosco e non apprezzo almeno un poco».

Elisa Russo, Il Piccolo 17 Febbraio 2009 

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