SIMONE LENZI «In esilio – Se non ti ci mandano, vacci da solo» (Rizzoli, pagg 223, € 18)

Simone Lenzi cover «Questa non è una storia. È un invito a guardare di nuovo il cielo di notte, in estate, come si faceva da ragazzi, quando cercavamo di riconoscere il disegno delle costellazioni. Non è una storia, perché le storie le abbiamo già tutte viste in televisione, per tutte le sere di questa nostra prematura vecchiaia in cui abbiamo smesso di uscire a guardare il cielo d’estate o siamo rimasti seduti sul divano ad ascoltare, a osservare milioni di storie che scorrevano davanti».

Ogni famiglia ha un quarto di sangue oscuro, si tramanda di generazione in generazione. Anche chi abbia trovato pace e serenità deve sapere che il quarto di sangue oscuro gli scorre nelle vene e basta poco perché torni a reclamare il diritto ereditario sulla sorte di ogni uomo. Ne è convinto il protagonista di «In esilio – Se non ti ci mandano, vacci da solo» (Rizzoli, pagg 223, € 18), un cinquantenne livornese che, con la moglie, decide di ritirarsi in campagna per stare lontano da una società in cui non si ritrova più («Io del mondo non volevo saperne più nulla»). Simone Lenzi, cantante dei Virginiana Miller, già autore di libri come «La generazione» che ha ispirato il film «Tutti i santi giorni» di Paolo Virzì, firma ora questo romanzo, anche questa volta piuttosto autobiografico, tanto da essere definito dallo scrittore stesso come “opera di autofiction”. Uno spaesamento devastante, un senso di non appartenenza molto diffuso che deriva al protagonista dal fatto di aver attraversato tanti mondi senza trovare mai il proprio, una crisi generazionale che si ripete ciclicamente perché, come scriveva Gramsci nei “Quaderni dal carcere”: «La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere». E allora, tutto diventa insostenibile: «Intanto però il fastidio mi era preso anche mentre camminavo la sera sul lungomare o lungo i canali. I ragazzi e le ragazze di quarant’anni col birrino in mano, mi davano fastidio. La postura da birrino, le gambe leggermente divaricate, il baricentro spostato un po’ in avanti, l’avambraccio destro leggermente proteso, mi dava fastidio. Il modo di tenerlo, fra due dita, quasi come un sigaro, o il bastone da passeggio di un dandy, mi dava fastidio. La parola birrino mi dava fastidio. Quando sedevano sulle spallette dei canali, o lungo il muro del moletto, col birrino in mano, mi davano fastidio. Perché non era mai solo uno: “Mi chiamo Legione” dicevano col birrino in mano, “perché siamo tanti”. Così avevo smesso di uscire la sera». Comincia così, il passo successivo è disintossicarsi dall’opinionismo a tutti i costi: «Mi vuoi dire qualcosa sulla situazione del porto? No. Mi vuoi dire qualcosa sull’amministrazione comunale? No. Che ne pensi della raccolta differenziata? No. Ma che risposta è no, ti ho chiesto cosa ne pensi. Ho capito, ma io non ne penso, quindi, per brevità, no. E pur standomene zitto sempre e in ogni modo, zitto al mattino, zitto al pomeriggio e alla sera, chiuso in casa, alla fine io e mia moglie cominciammo a prendere in considerazione l’esilio».

Tra tragedia e commedia, Lenzi sceglie sempre la seconda, quindi anche nelle riflessioni più amare, si finisce per riderci su. O almeno sorriderci. Il protagonista trova la sua via quando comincia a dire di no. No a Facebook dove si lavora gratis dieci ore al giorno creando contenuti per Zuckerberg, restando in attesa che “qualcuno metta mi piace al tuo piccolo sforzo narrativo” e grazie all’algoritmo della consolazione che riunisce in micromondi i miciofili, i vegani, i piddini, i nazisti dell’Illinois, gli juventini… (a ciascuno il suo) l’individuo non fa altro che illudersi che tutto il mondo gli somigli e non ci sia altro mondo che il suo.

No alle mode alimentari e a chi dice “Un tempo non c’era la celiachia che c’è oggi”, infatti la gente che viveva a chilometro zero si beccava direttamente “lo scorbuto, la pellagra, il gozzo endemico, il cretinismo atavico, e a trent’anni ne dimostrava settanta”. No agli chef stellati «Che i cuochi erano omoni burberi, puzzavano di amido e miasmi e non uscivano mai dalle cucine, non scrivevano libri, non andavano in tivù, e insomma cucinavano e non rompevano i coglioni»; «Perché io pago per mangiare qualcosa di buono, non per carezzarti l’ego, capisci amico chef? Altrimenti facciamo che io mangio, ascolto anche tutte le tue chiacchiere, ma alla fine sei tu che paghi me, siamo d’accordo?».

E verità inconfessabili: a cinquant’anni e senza figli, non riesce a preoccuparsi del riscaldamento globale, dell’effetto serra, della raccolta differenziata, del mercatino equo solidale. E, tra le note più dolenti, un no alla politica: «Non dirò più a nessuno quello che penso, ovvero che se questa è la sinistra, a me della vera sinistra non me ne frega più nulla. Se la vera sinistra erano queste matte con i figli di otto anni attaccati ai capezzoli, se la vera sinistra erano questi finti barboni che coltivano l’orto sul balcone, se la vera sinistra era questa pappetta di seitan, se la vera sinistra aveva il sapore insapore del tofu, se la vera sinistra era questo sogno di andare in giro scalzi coi piedi sudici, a me della vera sinistra non me ne fregava più nulla».

Elisa Russo, Il Piccolo 17 Maggio 2018

 

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